«L’indifferenza genera violenza. Ma i genitori siano più responsabili». Colloquio con il professor Michelangelo Pascali, docente di Sociologia del diritto e della devianza
Minori sparano in aria con un kalashnikov al lido Azzurro a Torre Annunziata. Bande incappucciate si affrontano a sprangate a Chiaia: sono studenti del Mercalli e dell’Umberto; quindicenne ammazzato durante uno scontro a fuoco con coetanei ai Quartieri Spagnoli; diciannovenne ucciso con un colpo di pistola esploso da un diciassettenne a San Sebastiano al Vesuvio; diciottenne colpito a morte ai Tribunali da un gruppo di minorenni; tredicenne accoltellato da un undicenne a Giugliano; quattordicenne fermato con una mannaia in un centro scommesse di Pollena Trocchia; quattordicenne a scuola con la pistola. Gli elenchi, a volte, servono. Sono l’unica istantanea possibile di fenomeni di devastante impatto e incalcolabile danno. E questo è il freddo e forse incompleto elenco di quanto è successo negli ultimi mesi tra Napoli e provincia, una lista che esclude stupri di gruppo, aggressioni e omicidi con minorenni per vittime e carnefici avvenute in altre città d’Italia. Non è un fenomeno nuovo, ma un’emergenza ciclica che ogni volta che si ripresenta impone riflessioni a breve termine e mea culpa del giorno dopo. Poi, salvo nuove tragedie, si riprende come se nulla fosse. I genitori s’interrogano – quando hanno tempo – sui perché e i per come di tanta violenza e si chiedono come preparare i figli ad affrontare la società. Ché, ormai è chiaro, il coltello o la pistola, la spranga o il passamontagna, non sono più equipaggi dei barrios de malamuerte o di famiglie disastrate, ma una “moda” trasversale che prende ricchi e poveri, figli di delinquenti e figli di persone perbene.
Un fenomeno che il professor Michelangelo Pascali, docente di Sociologia del diritto e della devianza alla Federico II, analizza nella sua complessità. “Non c’è una sola origine e non c’è una ricetta per affrontare un fenomeno che si ripresenta periodicamente e che adesso appare più massivo che in passato – spiega Pascali. – La genesi va ricercata nella indifferenza che accompagna le nuove generazioni. Indifferenza istituzionale, con le famiglie sole nel percorso educativo e spesso a loro volta indifferenti verso i figli perché troppo presi dal culto dell’individualismo; indifferenza verso il ruolo della scuola, ormai in balìa del precariato; indifferenza verso il bisogno di un conflitto generazionale che non ha più motivo di esistere”. Un aspetto, quest’ultimo, che si spiega, in parte, anche con l’appiattimento generazionale avvenuto attraverso i social network. “Genitori e figli sono sullo stesso piano digitale, un piano che spesso prevarica quello reale. Non c’è necessità di trasgredire, non c’è esigenza di differenziarsi da chi li ha preceduti, non si sente il bisogno di scontrarsi. Non siamo stati in grado di creare modelli attrattivi ai quali ambire o contro i quali lottare. Venuto meno il conflitto verticale, si è canalizzata la fisiologica pulsione allo scontro dovuta all’età a livello orizzontale. Di qui il bisogno di contrasto con i propri coetanei, spesso dai risvolti tragici”. Una chiave di lettura che responsabilizza una generazione di genitori che rifugge la responsabilità col ricorso sistematico alla delega. Sono cambiati i genitori, è cambiata la società. E anche la criminalità si è adeguata, visto che ormai arma chiunque. E infatti fa impressione la facilità di accaparramento di armi da fuoco da parte dei ragazzini. Contestualmente, si sono polverizzati i cliché di lettura paracamorristica della violenza giovanile, ma in una metropoli come Napoli l’assenza del movente gangheristico inquieta perché sorprende. Non si spara per la scalata al clan o per la droga, ma per celebrarsi o per fare gruppo, senza un perché materiale. La banalità del male è ancor più banale se trasforma minorenni in killer spietati. Il tutto mentre i social convertono in star autori di testi improbabili che scimmiottano criminali e cantano di sangue, soldi, sesso. Roba da far impallidire quel Nello Liberti con la sua “O capoclan”, corrido ercolanese in onore del boss Olivieri nel cui videoclip figuravano, interpretando se stessi, diversi camorristi, brano che ha creato un precedente con la condanna del cantante per istigazione a delinquere. Ma, oggi, chi emula chi? Gli artisti rispondono a una domanda di mercato o cantano ciò che li circonda? E c’è davvero una connessione tra i messaggi dei media e l’esplosione di violenza tra i ragazzi?
“Che ci sia un vuoto dentro il quale certi messaggi attecchiscono più facilmente è innegabile, non riusciamo a creare modelli per le nuove generazioni e loro se ne formano di deviati: il lusso viene inteso come un diritto da raggiungere con qualunque mezzo, ma il fenomeno ha numerose concause”, dice Pascali. E va affrontato con diversi mezzi. “Il primo passo è potenziare gli assistenti sociali, valido supporto di analisi precoce delle situazioni di disagio. Il loro sostegno alle famiglie, con l’analisi di contesti e comportamenti, permette di interpretare in tempo i campanelli di allarme e prevenire situazioni di violenza. I genitori vanno affiancati, a volte anche nei contesti più sani. Lo abbiamo compreso, una volta di più, dopo lo scontro tra il Mercalli e l’Umberto, quando abbiamo assistito a situazioni di negazione da parte delle famiglie: anche questa è una forma di abbandono morale. In secondo luogo, bisogna ridare centralità e dignità agli insegnanti: le persone motivate funzionano ciascuna nel proprio ruolo in società. Rafforzare la presenza delle forze dell’ordine è un altro aspetto, ma guai a delegare alla sola repressione un problema di questo tipo. Bisogna investire sul lungo termine, impegnando le risorse necessarie anche dal punto di vista economico”, conclude il professor Pascali.