Più che una mensa un «pranzo», questa è la definizione data dai curatori, per tessere quelle «relazioni territoriali del quartiere» che la pandemia Covid ha minato al pari dell’aspetto economico sempre più precario. Ogni martedì a Santa Fede Liberata, lo spazio comunitario di via San Giovanni Maggiore Pignatelli nel centro storico di Napoli, arriva l’appuntamento che mette a contatto le diverse esperienze etniche e comportamentali per raggiungere il concetto più vero di comunità. La diffusione del virus e la pandemia hanno reso ancora più importanti momenti del genere viste le gravi conseguenze del lockdwown dichiarato a marzo. «Il Covid ci ha insegnato che quelli reputati invisibili prima della pandemia sono ora diventati visibili. Il pranzo a Santa Fede Liberata la organizzavamo già prima del Covid e ora ne rivendichiamo la riapertura proprio anche in virtù di quanto ora sta accadendo» ci dice Gino Aveta mentre in cucina prepara il pentolone dove calare pasta e ceci, che insieme all’insalata di patate costituisce il menù di questa settimana. In precedenza, queste iniziative venivano ospitate anche in una taverna della zona gestita da chi ha sempre dato un contributo alla casa unitamente ad alcuni residenti e comitati del quartiere attraverso la donazione di alimenti.

I partecipanti settimanali al pranzo del martedì è aumentato: dai 15/20 del periodo antecedente al Coronavirus, si è arrivati a i 40 e 50 di oggi. Tra loro, aggiunge Aveta, «tante famiglie che si sono ritrovate senza lavoro a causa della crisi scatenatasi nei mesi scorsi e che già galleggiavano sul mare della sopravvivenza». Paolo Mongelli, un altro attivista assiduo di Santa Fede Liberata, precisa un aspetto importante. «Il nostro intento con il pranzo del martedì non è fare la carità, ma mettere in relazione le persone. Non si tratta soltanto di metter un piatto a tavola, è qualcosa di più complessivo». «Non è facile far convivere le diverse realtà perché accettare i propri limiti è facile, accettare quelli degli altri è più complicato ma è stimolante provarci continuamente. Noi non ci sostituiamo alle istituzioni, spesso comunque troppo passive, né siamo assistenti sociali e non facciamo neppure assistenzialismo» dice ancora Gino Aveta che non trascura un altro elemento lascito del Coronavirus: «L’alto disagio psicologico di tante persone» già provate da stenti dovuti a mancanza di lavoro e in alcuni casi persino di un tetto sotto il quale stare. Mentre chi è nella stanza dei bottoni spesso cincischia, c’è chi come gli attivisti di Santa Fede Liberata accende il fuoco, riempie un pentolone di pasta e senza stare troppo a pensarci aiuta i diseredati. Sul serio.

di Antonio Sabbatino