A l pari delle stagioni, anche i ruoli – in qualunque ambito ed in qualunque dimensione – cambiano e si modificano, imponendo nuovi valori (professionali e personali) e innescando nuovi incontri e nuove relazioni con ambiti di cui non si supponeva neppure l’esistenza.
È accaduto anche al Terzo Settore, sia in ambito nazionale che internazionale.
Una delle evidenze più importanti interessa il tempo e la dimensione dell’azione. Dall’attivazione di una azione di supporto solo in caso di emergenze (umanitarie, sociali, ambientali) con un obiettivo di breve termine (la mitigazione degli impatti della crisi sulla popolazione o sul territorio colpito) si è passati, infatti, ad una azione molto più strutturata e stratificata nel tempo con un obiettivo che non è più limitato al singolo evento, ma diventa sempre più diffuso, sia in termini di intervento che di impatto. Questo ampliamento – dello scenario di riferimento come delle responsabilità associate alla condotta – ha prepotentemente contribuito ad una nuova tensione relazionale, con ambiti che, sino a quel momento, erano stati interpretati come lontani dall’agire stesso del Terzo Settore. Proprio questo ampliamento ha imposto allo stesso Terzo Settore una sensibilità del tutto nuova ai principi della credibilità, della notorietà e, più in generale, della visibilità. Principi di cui l’ambito aveva sempre fatto a meno, sfruttando/tutelando un posizionamento che potremmo definire di magnifico e identitario isolamento. Di fronte a questo ulteriore passaggio, che non può dirsi (ancora!) perfezionato, si registrano delle luci e delle ombre su cui è doveroso riflettere. Luci, nel momento in cui parliamo di credibilità e di fiducia.
Come ben dimostrato dalle tante ricerche che hanno indagato l’ambito ed il suo evolversi, tutte concordi nell’evidenziare un alto – e, dato ancora più importante – costante – livello di credibilità trasversale che ammanta pubblici anche molto diversi tra loro . Ombre, concentrate sulla ancora parziale capacità di intercettare i cambiamenti interni e, nel contempo, di promuovere una sostanziale azione di rilancio che – proprio nella nuova stagione relazionale – implica un radicale ripensamento delle logiche organizzative, formative e, in ultima analisi, comunicative.
Tra questi cambiamenti, vale la pena di sottolineare il passaggio da uno spontaneismo ideologico ad uno spontaneismo funzionale che ha completamente rivoluzionato non solo il modo con cui il volontario potenziale si approccia alla singola organizzazione ma, ancora di più, le motivazioni che sottendono all’impegno e, dunque, le sue aspettative nel momento in cui entra nelle logiche operative dell’organizzazione. Motivazioni che non riguardano più esclusivamente una visione del mondo ma che aggregano al proprio interno anche riflessioni pratiche che riguardano, per esempio, la possibilità di testare quanto appreso sui banchi di scuola o dell’università o, ancora, la possibilità di una esperienza che sia funzionale alla ricerca di un impiego.
E ancora – in termini di cambiamenti sottovalutati – l’utilizzo di un timbro comunicativo ancora troppo emotivo persuasivo, sia nella fase di narrazione quotidiana che in quella – ancora più specifica – di relazione con il pubblico dei donatori, fidelizzati e potenziali. A fronte di una dinamica del dono che – pur inalterata dal punto di vista quantitativo – evidenzia cambiamenti strutturali di non poco conto. Tale scenario di riferimento ci offre delle macro evidenze sullo stato attuale del Terzo Settore. Innanzitutto, rileviamo una presenza sempre più diffusa e stratificata in spazi sociali sempre più ampi e connessi, ma anche un posizionamento ancora incerto che risente di lacune organizzative, comunicative e in un certo qual modo interpretative.
In tal senso, l’attuazione di una dottrina dei doveri anche nel Terzo Settore potrebbe certamente aiutare una fase che è ancora, paradossalmente, di accreditamento, irrobustendo una licenza ad agire non solo nei confronti dei nostri pubblici ma anche e soprattutto nei confronti dei nostri partner.
E non vi è dubbio che questo processo possa iniziare proprio da un percorso di contaminazione con il corposo ed esauriente patrimonio deontologico dei giornalisti. In alcuni casi succede già. Nel momento in cui un addetto stampa dialoga con i propri pubblici. O nel momento in cui una organizzazione che opera nelle tematiche della migrazione adotta i principi della Carta di Roma. Così come non vi è dubbio sul fatto che il dovere di restituire la verità sostanziale dei fatti – come recita la legge istitutiva dell’Ordine – rappresenti, oggi, anche un metodo comunicativo infallibile per instaurare una relazione salda, solida, resistente e impermeabile alle intemperie del tempo, rispettando i principi di una comunicazione che sia, in prima battuta, responsabile oltre che persuasiva. Tuttavia, questa vicinanza, questa assonanza di intenti non può rappresentare per il Terzo Settore un alibi, per una strategia adattiva che non porterebbe ad alcuna significativa innovazione, stante le differenze che permangono tra i due ambiti. Al contrario, deve essere punto di partenza, per una azione di irrobustimento formativo e di inquadramento di quei ruoli che, più di altri, sono deputati allo scambio relazionale con l’esterno e per la nascita di una carta deontologica condivisa ed univoca, frutto di una ben più difficile e consapevole riflessione.

di Stefano Martello