“La classe operaia va in paradiso” è un progetto teatrale ambizioso. In scena fino al 14 aprile al Teatro Bellini di Napoli e prodotto dall’Emilia Romagna Teatro Fondazione con la regia di Claudio Longhi e la drammaturgia di Paolo Di Paolo, è uno spettacolo liberamente tratto dall’omonimo film di Elio Petri scritto con Ugo Pirri nel 1971, pellicola che scatenò molto clamore in Italia per la sua rappresentazione della classe operaia.
Protagonista è l’operaio Lulù Massa, interpretato da un Lino Guanciale impeccabile per intensità ed anima. la sua storia è un’espediente per raccontare le storie di tanti operai – macchine che lavoravano a cottimo per sostenere i ritmi di produzione della fabbrica, finendosi inevitabilmente per alienare da loro stessi e dalla loro vita.
Ritroviamo sul palco però, non solo la storia del film, ma una trasposizione ricercata con la volontà di portare in scena anche il clima dell’epoca, l’universo intellettuale degli artisti e dell’opinione pubblica, la necessità di Petri di fare questo film.
Attraverso degli espedienti registici e narrativi, la platea diventa un prolungamento del palco dove studenti e sindacati alternano comizi, dove un “menestrello” (Simone Tangolo) racconta a suon di filastrocche l’eterno conflitto tra le classi, dove gli attori nascosti tra il pubblico rappresentano l’opinione pubblica italiana che vide quel film per la prima volta nel 1971.
I linguaggi sono tanti, c’è il video e c’è la musica oltre il teatro, incursioni eleganti che rendono molto dinamico l’intero spettacolo e che servono per dare sempre più elementi al pubblico ad entrare nella Storia. Un testo molto lungo quello di Paolo Di Paolo, l’intera rappresentazione dura due ore e mezza, efficace nell’energia grazie ad attori molto puntuali e preparati e grazie ad una scenografia (di Guia Buzzi) in continuo movimento proprio come le macchine e i personaggi, ma al tempo stesso leggera e funzionale.
Una irrequietezza fisica che porta addosso i segni dell’alienazione, della distanza dalla vita reale a tal punto da preferire di restare in fabbrica che cenare a casa propria, come racconta il personaggio di Mitilina (ex operaio rinchiuso in manicomio dopo l’allontanamento dalla fabbrica) a Lulù. Un’immagine che ci porta ai nostri tempi, dove esiste un altro tipo di alienazione e dove la normalità percepita è sempre e comunque una normalità che scavalca i più deboli e rende ugualmente schiavi. La normalità del precariato lavorativo che spinge gli uomini ad accettare compromessi, ricatti e a mettere il proprio tempo continuamente in discussione per necessità altrui, la normalità di sentire necessario l’acquisto di cose inutili, che spesso non rispecchiano i propri gusti o che non sono conformi al nostro stile di vita.
Proprio come accade a Lulù, che in una delle parti più grottesche del film passa in rassegna i suoi acquisti inutili rapportandoli alle ore di lavoro spese per comprarli, in un crescendo di ossessione e follia.
Il lavoro nel complesso è molto interessante perché ambisce a dare un quadro quanto più completo possibile di una parte di storia del nostro paese piena di contraddizioni e di voci diverse senza mai schierarsi con nessuna di queste.
Il testo non dà suggerimenti, non chiarisce le reazioni di Lulù, è un cerchio che non si chiude; lascia un senso di straniamento che costringe a pensare da soli. Una cosa forse a cui non siamo ormai troppo abituati.
Gli altri interpreti sono Donatella Allegro, Nicola Borlotti, Michele dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Filippo Zattini.

di Caterina Piscitelli