NAPOLI – Le migrazioni e il loro carico di sofferenze, quelle di chi arriva dal mare e di chi accoglie sulla terraferma, sono una realtà con cui tutti noi siamo costretti a fare i conti. Anche la psicoanalisi, spesso percepita come una disciplina racchiusa solo all’interno di stanza con un lettino, si è sentita coinvolta e ha inteso offrire il proprio contributo ad un tema, quello della sofferenza psichica dei migranti, così drammaticamente reale e concreto. Comunicare il Sociale ha intervistato la dottoressa Virginia De Micco, analista, antropologa, e membro della Società Psicoanalitica Italiana.
In che modo la psicoanalisi, spesso percepita come lontana dal quotidiano, può mettersi al servizio dei migranti?
«Intanto va detto che la psicoanalisi non è una scienza avulsa dal contesto sociale e proprio per questo circa tre anni fa alcuni analisti membri della SPI, sensibili o già coinvolti nel campo delle migrazioni, sull’onda di una spinta ideale, sociale e politica, hanno dato vita al gruppo “psicoanalisti europei per i rifugiati”, con l’obiettivo di mettere gli strumenti analitici al servizio di questi ultimi e delle istanze di cui sono portatori. Le migrazioni, a ben vedere, significano proprio realtà psichica inconscia e la loro emergenza, nel senso di ciò che esce fuori, è riferibile dunque a tale realtà. In questo senso la psicoanalisi è invece la disciplina più adatta a leggere un sociale così liquido e frantumato»
In un suo recente articolo, afferma che i profughi e i migranti sono portatori di traumi massicci che ne hanno sconvolto il tessuto identitario. Sono esperienze impensabili che si inscrivono nel corpo
«È doveroso specificare che tale portata traumatica è connessa alle ondate migratorie degli ultimi anni, che non possono essere più inquadrate nell’angusta cornice della differenza culturale perché i migranti hanno vissuto esperienze di disumanizzazione molto forti le cui immediate conseguenze sono lo smarrimento dell’elemento identitario. Queste esperienze così traumatiche devono trovare spazio nella mente di chi accoglie»
Veniamo proprio agli operatori dell’accoglienza. Su questo aspetto avete concentrato molto l’attenzione
«Si, perché è proprio nell’interstizio dell’accoglienza che si gioca la possibilità di non tradurre l’enorme sommovimento di popolazioni in un fenomeno di patologia sociale. Il nostro lavoro si è concentrato nel sostenere gli operatori dell’accoglienza nel loro fondamentale ruolo di ascolto del disagio, avamposto dell’impensabile, e dare loro degli strumenti di trasformazione dello stesso. Chi accoglie va aiutato a riconoscere le angosce interne che sollevano le storie traumatiche dei migranti; solo così gli operatori possono sintonizzarsi con quanti hanno vissuto la disumanizzazione. Ascoltarsi per ascoltare. E da qui che inizia il lavoro di cura»
Ritornando sul tema dell’identità, quella collettiva, vivendo ormai in società irrimediabilmente mescolate, in che termini se ne può parlare oggi?
«Il vero problema di questo tempo è la scarsa percezione delle nostre identità, quelle dei paesi accoglienti. Ci troviamo dinanzi a comunità, le nostre, prive ormai di identità che a loro volta accolgono altri soggetti sradicati. Ed è sul terreno dello sradicamento reciproco che va appoggiandosi quel movimento di chiusura dentro i propri confini, di espulsione di ciò che è diverso da me».
Di recente avete scritto una lettera aperta al Presidente della Repubblica, esprimendo forti preoccupazioni riguardo al decreto sicurezza. Una presa di posizione forte. Quali motivazioni alla base?
«Primo, nelle stanze di analisi viene fuori tutto quell’inconscio che agisce continuamente nel sociale, dunque, sono delle sonde insostituibili all’interno della società. Secondo, il sociale, in questa stagione politica, sembra stia sfuggendo di mano pertanto ravvisiamo l’esigenza di pensare in senso analitico, ossia di trasformare le emozioni inconsce. Infine è necessario riaprire dei canali di immigrazione regolari per avvalersi dell’apporto di energie nuove e non confinare i migranti solo nel recinto dei rifugiati-traumatizzati»

di Ornella Esposito