ROMA – Di Giulio Regeni, il giovane ricercatore di Cambridge al Cairo per svolgere una ricerca sui sindacati locali, le tracce si perdono il 25 gennaio del 2016. Quel giorno la famiglia perse i contatti col ragazzo, il cui corpo sarà ritrovato solo il 3 febbraio successivo sul ciglio dell’autostrada che collega il Cairo ad Alessandria, con evidenti segni di tortura. La vicenda, che ha finito per chiamare in causa direttamente i servizi di sicurezza e la polizia egiziana, in un delicato gioco delle parti tra i governi del Cairo e di Roma, è lungi dall’essere risolta.
A tre anni di distanza, l’ong Amnesty International ha lanciato un’iniziativa che porterà in oltre 100 piazze d’Italia delle fiaccole alle 19.41, orario della scomparsa di Giulio, per chiedere ciò che in questi tre anni è diventato il motto della battaglia dei Regeni: “Verità e giustizia”.
L’ong internazionale, così come molte altre anche in Egitto, denuncia la pratica delle autorità egiziane di rapire, torturare e poi uccidere chiunque esprima una posizione contraria a quella del governo, un ‘modus operandi’ che secondo alcuni osservatori sarebbe peggiorato con l’arrivo al governo di Abdel Fattah Al-Sisi.
L’obiettivo secondo gli esperti sarebbe scongiurare nuove ondate di dissenso popolare, come quelle che nel 2011 causarono la fine del regime trentennale di Hosni Mubarak. Gli osservatori denunciano anche un clima di omertà e connivenza che porta le istituzioni, la magistratura e le forze dell’ordine a coprire i crimini commessi da polizia ed esercito.
“Solo nel dicembre 2017 – fa sapere Amnesty – l’avvocata della famiglia Regeni è riuscita a farsi dare dei documenti dalla procura locale recandosi direttamente al Cairo mentre non sono ancora disponibili le immagini riprese il 25 gennaio 2016 dalle telecamere a circuito chiuso installate nella zona in cui Giulio Regeni scomparve”.
A confermare che il problema è reale, c’è l’ultimo report del Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate e involontarie (Wgeid), secondo cui i “casi urgenti” al momento sarebbero 173, mentre altri 285 non sarebbero ancora stati analizzati. Secondo il Committee for Justice – un osservatorio indipendente sui diritti umani che segue i Paesi di lingua araba – tra agosto 2017 e agosto 2018 le sparizioni di studenti, blogger, giornalisti e attivisti in Egitto avrebbero raggiunto le 1.989 unità.
E’ proprio di questi giorni la notizia della liberazione di Mona Mahmoud Mohamed, una donna arrestata dopo aver denunciato all’emittente britannica ‘Bbc’ che la figlia, Zubeida Ibrahim, è stata rapita e quindi violentata dalle forze di sicurezza egiziane. La giovane era già stata sequestrata l’anno precedente per 28 giorni: una volta tornata a casa, i familiari avevano constatato non solo i segni di una violenza sessuale ma anche dell’elettroshock.
La madre della ragazza – che con la figlia aveva già subito nel 2014 torture in carcere per aver preso parte a una manifestazione – è stata accusata di aver diffuso false notizie e di appartenere a un gruppo terrorista. Sebbene sia tornata in libertà, deve recarsi in commisariato due volte la settimana, e ancora rischia di subire un processo per terrorismo.
Un caso analogo riguarda quello di Amal Fathy, la moglie del consulente legale in Egitto della famiglia Regeni: Amal è stata condannata a due anni di carcere per aver denunciato in un video di aver subito molestie sessuali da parte delle forze di sicurezza, una piaga che viene confermata da molteplici associazioni per i diritti delle donne nel Paese. Ma per il marito, Mohamed Lofty, si tratterebbe anche di un modo per colpire lui e il suo lavoro per i Regeni.
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