66BOLOGNA – Quattro incontri per rompere una barriera e suggerire una diversa idea della poesia . Sono gli appuntamenti de  “Le parole necessarie”, laboratorio di scrittura e di ascolto che si è svolto al Policlinico Sant’Orsola di Bologna. Pazienti, medici, infermieri, familiari e volontari vi hanno preso parte guidati da Valerio Grutt – direttore del Centro per la poesia Contemporanea dell’Università di Bologna (promotrice dell’evento insieme al Policlinico) – e da Tommaso di Dio, giovane poeta milanese che ha scelto di raccontare quella che ha definito un’esperienza «del tutto nuova».

Solitamente gli ospedali non sembrano luoghi deputati alla cultura eppure, il progetto “Le parole necessarie” quest’anno ha ripreso forma con una seconda edizione. Come è nata l’idea di una simile iniziativa?

«L’idea di questa iniziativa nasce dalla costanza e dalla visione di tutto lo staff del Centro di Poesia Contemporanea di Bologna, diretto da Valerio Grutt, dalla lungimiranza di Stefano Vezzani, coordinatore della comunicazione dell’Ospedale Sant’Orsola, e del direttore generale Mario Cavalli, che insieme hanno lavorato moltissimo perché questa esperienza potesse accadere. Io, insieme ad altri poeti, sono stato ospite di questa visione, e spero che il mio modesto contributo possa essere stato un servizio affinché questo progetto prosegua e proceda negli anni. Dici bene: di solito gli ospedali sono visti come ghetti – città nella città (e il Sant’Orsola è davvero enorme: è uno dei più grandi ospedali d’Italia) – connessi eppure esclusi dal tessuto sociale. C’è come una barriera che separa questi luoghi dal resto del mondo. Al di là della barriera visibile, fatta di controlli e di reparti giustamente protetti, ce n’è un’altra, più inquietante e subdola e per lo più invisibile. L’ospedale è visto esclusivamente come luogo di dolore, il luogo del dolore. Obiettivo primario del progetto “Le parole necessarie” è invece scardinare questa porta chiusa e lasciare che un’osmosi più profonda scorra fra la città e questa città nella città, affinché le persone incomincino a frequentare i luoghi dell’ospedale come uno spazio della complessità dell’umano: non solo il regno dove vige sovrana la tecnologia della terapia, ma dove tutti si possano confrontare con la centralità che qui accade. In un ospedale – giova ricordarlo – si vive innanzitutto la comunione della cura: si spartisce la gioia della nascita, della guarigione, si condivide il dolore della perdita, si stabilisce l’umano come quell’animale che costruisce e istituisce la cura dell’altro in tutti i suoi ambiti, che lavora e lavora precipuamente per il benessere del prossimo. Di tutto questo ci si dimentica troppo facilmente o si preferisce viverlo come esperienza singolare, eccezionale. Io credo, invece, che il presupposto di questo progetto sia proprio quello di scartare una troppo ingenua idea dell’arte come terapia e di proporre, invece, l’ospedale come luogo dove l’umano si riveli nei suoi estremi più significativi e quotidiani, lasciare che ciò emerga e abbia spazio di espressione, confronto, riflessione: in questo l’arte e la cultura possono essere un veicolo essenziale. È difficile descrivere l’impressione che ho avuto osservando, uno al fianco dell’altro, chi lavora in ospedale e chi vive l’ospedale come paziente. Accade qualcosa di grandioso: ognuno si ritrova, uguale all’altro, a condividere qualcosa che già sa e che non sapeva di sapere, ovvero di cosa sia effettivamente fatta la vita, quale sia la sua vera materia».

Quanto dà e quanto toglie un’esperienza del genere a chi, come nel suo caso, vi prende parte in veste di “poeta”?

«È difficile separare, per me, l’essere poeta dall’essere persona, essendo il primo l’unico modo che ho per essere integralmente il secondo; e lo è ancora di più in questa occasione dove i confini si sfrangiano e ci si confronta, in modo frontale, nudo, con la dimensione umana. Inoltre, c’è da aggiungere che ho partecipato a “Le parole necessarie” in due vesti parzialmente diverse: l’anno scorso come poeta in corsia, all’interno del reparto di Neonatologia; e, quest’anno, come guida di un laboratorio. Nella prima ero chiamato a osservare silenziosamente, a partecipare alla vita di un reparto e, nel caso, a trascrivere nei modi della poesia quello che vivevo. Nel secondo, invece, sono stato chiamato a guidare e, attraverso la mia esperienza, a suggerire come rendere in parole più prossime alla loro verità il vissuto di chi ha partecipato. Era la prima volta che facevo una cosa simile e non avevo neanche mai pensato di poterlo fare: è stata un’esperienza del tutto nuova. Ciò che mi ha dato è stata la conferma di una cosa che avevo soltanto intuito, e cioè che la poesia non si fa da soli, che la poesia è il contrario della solitudine (forse si direbbe meglio: è il suo lato profondo). È un’azione che nasce da e termina in una comunità. Sebbene si scriva spesso – tecnicamente – da soli, si scrive sempre a partire da una comunità che ci ha preceduto e verso un’altra che verrà. Quello di cui sono stato partecipe è proprio il formarsi di questa piccola tribù che si costituiva intorno alle parole e, attraverso di loro, orientava il proprio senso: la poesia è stata lo strumento, il bastone del rabdomante che ha guidato la nostra ricerca. In merito alla seconda parte della domanda, ovvero cosa mi abbia tolto, ti devo confessare che non mi ha tolto proprio niente (nel senso della privazione e del possesso). Mi ha, invece, completamente svestito: mi sono sentito privo di giudizio nei confronti di alcuni testi che incontravo. Di fronte ad essi, per forza, intensità, per congruità, sono stato rapito. Mi sono apparsi perfettamente in accordo con la vita e il corpo di chi li aveva scritti, fusi nel momento in cui accadevano lì dove accadevano».

In che modo, a suo parere, la scrittura poetica come canale di relazione può influire sulla vita dei pazienti? 

«Forse non sono la persona giusta per rispondere a questa domanda; e dare una risposta netta mi sembrerebbe tradire le mille e personali ragioni che hanno spinto alcuni partecipanti a condividere ciò che hanno scritto: gli effetti che la scrittura poetica può sortire sono imperscrutabili e personali e a volte completamente nulli. La poesia non è una scienza esatta e si prende esattamente quanto si dà. Ognuno è arrivato con un desiderio, di cui forse era parzialmente all’oscuro; e voglio pensare che se ne sia andato dal laboratorio con qualcosa da far crescere dentro, qualcosa di vivo e nutriente, qualcosa che l’accompagni nel tempo della sua vita: un senso di corrisposta profondità e ascolto, qualcosa di cui spero andrà in cerca e che saprà riconoscere. Ti voglio raccontare una cosa, per concludere. Siamo partiti da una poesia di una poetessa peruviana, Blanca Varela, che descrive un animale che «sta cantando», che «avvolto in luce sporca / se ne va in festa», verso il suo destino di ineluttabile morte. Gli ultimi due versi di questa splendida poesia sono stati ripetuti e rievocati tacitamente molte volte all’interno del laboratorio: «c’è bisogno del dono / per entrare nella pozza». Ecco, per entrare con sincerità nella nostra vita e nel suo destino, al di là di ogni stato di salute o malattia, al di là di ogni ruolo, c’è bisogno di uno spazio festivo, di un luogo che va trovato, che è necessario incontrare e offrire, uno spazio gioioso in cui ognuno si può dare all’altro esattamente com’è, in una forma di pienezza verso cui la poesia ha da sempre teso le mani».

di Francesca Coppola

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