bacio_gay_bandieNAPOLI – Giuseppe, vive da quando è nato, ventotto anni, in un paese della provincia di Napoli. 15.000 abitanti o poco più. Troppo grande per sentirsi a casa, al sicuro, protetto, quando si lascia convincere che è la diversità il suo problema. Troppo piccolo per sentirsi “assolto”, senza che il peso delle parole degli altri si impossessi della sua libertà di scelta, di pensiero, di vita e lo rimodelli a sua immagine e somiglianza. Diviso in due. Talvolta in tre, in quattro. Perché l’amore gay, sbandierato e sbocciato alla luce del sole, è un eterno incompreso. L’illegittimo “ardore”, incapace di sentimento, che va nascosto e truccato, per essere uguale agli uguali. Normali, insomma. C’è del coraggio, in lui, quando ogni giorno sceglie di non nascondersi e urlare quasi con rabbia, in faccia ai pregiudizi, la sua omosessualità. Quasi a rivendicare, come se non gli appartenesse del tutto, un diritto all’esistenza. «E’ stato difficile- afferma- costruire la mia vita in un piccolo paese, da persona libera, senza finzioni, né costrizioni morali che spesso suggerivano di abbandonarmi, di lasciarmi stare, di trasformarmi all’apparenza. Per essere accettato, compreso, amato. Senza marchi, etichette. Ho capito di essere gay a 13 anni. La gente, prima di me. Ed è per questo che la mia adolescenza è stata un vero e proprio conflitto. Ho sofferto tanto, per la paura di non essere come tutti. Ed ho sofferto tanto, quando sono stato costretto a lottare contro sorrisi, sbeffeggiamenti, volgari battute o quando ho dovuto imparare a difendermi dalle mani dei miei coetanei. Le sento ancora addosso. Come se schiaffi e pugni avessero potuto “ripulirmi”, farmi guarire. Oggi, l’indifferenza, la mia cura, mi preserva parzialmente dai dolori. Una sorta di anestesia. I sorrisi, gli sbeffeggiamenti, le volgari battute, tornano indietro come boomerang. Sono ancora lontano dall’avere quasi naturalmente, la possibilità di camminare per strada, di sorseggiare un caffè, di fare la spesa, di guardare un ragazzo carino, senza essere giudicato come il “ diverso” e senza ascoltare il rumorio di un pettegolezzo. Ma va bene così. Mi riparo coi miei sogni. Un amore pulito, una famiglia, e la felicità di essere ciò che sono e che voglio essere. E non è poco».

 di Carmela Cassese

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