Ci sono cose che un giornalista non vorrebbe mai scrivere. Chi sceglie questo mestiere sa bene che uno dei suoi compagni inseparabili sarà il dolore. Quello degli altri. Quello visto in mille situazioni. Ombra nefasta che ci obblighiamo a seguire. C’è allora chi diviene cinico e distaccato a furia di vederlo e c’è chi conserva il pudore e la compassione per ciò che ci è attorno. Quando se ne parla, quando si guardano alcuni colleghi, molti dei quali anziani, ci ritroviamo a chiederci se davvero diverremo così. Lontani, distaccati. Interrogativo senza risposta. L’unica cosa che ti viene in mente è che, a furia di viverlo, finirai per abituarti. Una palestra alla sofferenza. Ma poi accade qualcosa. Quella che ti fa capire che non ci sarà mai nulla che l’abitudine al dolore non la farai mai, non la vorrai fare mai.
Stamane ero ancora a casa, cellulare spento, a leggere la rassegna stampa del giorno. Una telefonata. Rispondo. E’ una voce che non ascolto se non per lavoro. Pronuncia il suo nome. Poi silenzio. Capisco. In un attimo lego il silenzio ad un sms che avevo ricevuto ieri sera… “Davide è peggiorato domani non vengo, scusami tu e scusami con tutti, Walter”. La prima lacrima scende in silenzio. Pronuncio il cognome del mio caporedattore, Medolla, stavolta lo chiamo per cognome, quasi a mettere la prima distanza tra me il dolore  …quasi a volermi sentir dire “no ti sbagli non è per Walter che ti chiamo”… Di nuovo silenzio. Davide Medolla non c’è più.
Walter conta i miei anni. Il mio carattere. Il fratello che mi è mancato. Gli ultimi quattro sono quelli passati fianco a fianco nel giornale. Quelli trascorsi a viaggiare perché il giornalista per noi le cose deve vederle con i suoi occhi e con il culo alla sedia bisogna starci il meno possibile. A litigare perché se sei simile a qualcuno il confronto diviene spesso scontro. Semplicemente fratelli. Due vite giovani. Poi lui cresce. Si sposa, non passa tempo che inizia la strada verso la paternità. Momento felice che segna il passo tra il ragazzo e l’uomo. Manca poco, manca davvero poco. E succede qualcosa che non doveva succedere. Passano giorni difficili. Il piccolo Davide nasce prima del suo tempo. E così tutto diviene tempo di lotta. Io non so, non riesco neppure ad immaginare questo suo tempo passato a combattere. Sono rimasto a guardare in silenzio, come immagino avrei voluto io. Poi stamattina tutto finisce. Quando si spegne la preoccupazione, o quando la preoccupazione si dilata in un tempo lungo, si lascia il passo alla speranza. E si stava cosi, a sperare. Scherzando gli avevo detto qualche giorno fa “Davide Medolla è un buon nome per un giornalista”. Nel mio essere ragazzo conservavo ancora l’illusione che alla fine poi tutto va per il meglio. Ora sono qui, seduto alla sua postazione, a confrontarmi con una storia che non sono all’altezza di scrivere e di raccontare. Me lo hanno chiesto gli altri. Quelli che sono attorno a me fisicamente ed attorno a lui con la mente e con il cuore: Francesco, Giusy, Stefania e gli altri.
Oggi gli andremo incontro nel suo dolore. Quello di un padre. Quello che non so capire. Io non sono credente. Però oggi mi spingo ad esserlo perché ne ho bisogno. Bisogno di credere che un motivo, un perché qualsiasi ci sia. Per farlo sentire a lui. Per crederci io. Francesco poco fa mi ha chiesto “Come lo chiudi questo testo?”, è la prima domanda che un giornalista si pone quando scrive. La prima risposta che riesce a darsi. Stavolta io una risposta non ce l’ho. Non so chiudere. Perché non vorrei chiudere. Vorrei che da un momento all’altro il telefono squillasse di nuovo e mi dicesse “non è accaduto nulla del genere, continua a sperare per il tuo amico”. Domani è un giorno come tutti, come gli altri. Invece, no.

Luca Mattiucci

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