La scrittrice dirige la sede milanese della scuola di italiano per migranti Penny Wirton, dove non ci sono classi e l’accoglienza è una realtà concreta.

Dal 2015 dirige la scuola di italiano per migranti Penny Wirton di Milano, un luogo in cui parole come accoglienza e integrazione assumono un significato concreto. Da questa esperienza, Laura Bosio ha tratto il suo ultimo libro, Una scuola senza muri (Enrico Damiani Editore, 2019). Abbiamo raggiunto la scrittrice in occasione dell’appuntamento dell’8 dicembre a Palazzo Donn’Anna con Il suono della parola, rassegna prodotta dalla Fondazione Pietà de’ Turchini, a cura di MiNa vagante, con il sostegno della Regione Campania e il patrocinio del Comune di Napoli.
Laura, ci parla della sua esperienza alla Penny Wirton?
«La Penny Wirton è stata fondata dallo scrittore Eraldo Affinati e dalla moglie Anna Luce Lenzi a Roma, nel 2008. Nel 2015 mi hanno chiesto una mano per far nascere la scuola a Milano e ho accettato. Oggi in Italia ce ne sono più di 40. Alla Penny Wirton non ci sono classi né iscrizione formale: accogliamo tutti per l’intera durata dell’anno scolastico. Abbiamo numerosi studenti, l’anno scorso sono stati quasi 350. I migranti hanno bisogno di imparare la nostra lingua per integrarsi, per lavorare e ottenere il permesso di soggiorno».
Un ruolo fondamentale è quello degli insegnanti.
«Abbiamo circa 150 insegnanti volontari: professori, pensionati tra cui ex docenti, architetti, ingegneri, giornalisti e medici, studenti universitari. Vengono da noi anche i ragazzi dei licei, per svolgere l’alternanza scuola-lavoro. Tutte le Penny Wirton lavorano con un rapporto uno a uno – un insegnante per ogni studente – o per piccoli gruppi. Il programma viene modellato sulla persona, in base alla sua conoscenza dell’italiano e alla sua velocità di apprendimento».
Dall’impegno alla Penny Wirton è nato il suo ultimo libro, Una scuola senza muri.
«Nel libro uso nomi di fantasia, ma le storie sono vere, raccontate per scorci, così come giungono a noi. Molti dei nostri allievi hanno alle spalle vere tragedie: parlare nella nuova lingua del loro mondo significa ricucire queste vite spezzate».
Com’è la realtà dei migranti a Milano?
«I nostri allievi provengono dall’Egitto, dai Paesi dell’Africa Subsahariana, da Bangladesh e Sri Lanka, dal Centro e Sud America, dall’Europa dell’Est. Emigrano per ragioni di povertà, di guerra, di siccità. Da poco più di un anno, inoltre, arrivano da noi numerosi minori non accompagnati dall’Albania e dal Kosovo, in cerca di una via migliore».
Che significato hanno, oggi, parole come accoglienza e integrazione?
«Il nostro compito è insegnare l’italiano, però non possiamo chiudere gli occhi sui problemi di queste persone: quando hanno bisogno di fare ricorsi, per esempio, ci rivolgiamo ad un avvocato per fornire loro assistenza legale. Poi ci teniamo informati sulle offerte di lavoro sul territorio milanese. Cerchiamo di fare rete. Esiste un’Italia e una realtà molto diversa da quella che viene raccontata. Una realtà fatta non di paura, di pregiudizio, di intolleranza, di indifferenza e di insofferenza, ma di accoglienza concreta e integrazione».
di Paola Ciaramella