ROMA – «La categoria dei beni comuni è diventata centrale quando, di privatizzazione in privatizzazione, ci è accorti che si stavano svendendo beni appartenenti alla collettività al solo fine di fare cassa, privando il popolo di asset strategici fondamentali». Il professor Paolo Maddalena, presidente emerito della Corte Costituzionale, fondatore e presidente dell’Associazione di promozione sociale “Attuare la Costituzione”, ha sempre coniugato l’attività di magistrato ai massimi livelli con quella di ricerca nei campi del diritto romano, amministrativo, costituzionale ed ambientale, giungendo alla conclusione che la stragrande maggioranza dei problemi del Belpaese può essere risolta grazie alle indicazioni contenute nella Carta del ’48, bene comune nel senso di patrimonio comune del popolo italiano di cui avvalersi per uscire dalla grave situazione di crisi che ci attanaglia.
Professore come si fa a coniugare la “proprietà privata” con i “bene comuni”?
Innanzitutto dobbiamo partire dal presupposto che non abbiamo inventato nulla, ma la categoria è stata già delineata dai giureconsulti romani. Basta ricordare le res communes omnium di Marciano (giurista vissuto nel III d.C.), che vi faceva rientrare l’aria, l’acqua corrente, il mare e, conseguentemente, il lido del mare (aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris). Attraverso questa teoria si è arrivati ad una tutela assai ampia di interessi comunitari ed universalistici. La proprietà collettiva implica non il potere di disporre del bene, ma solo la facoltà di un suo uso corretto e condiviso con gli altri consociati, al fine di conservarlo per le future generazioni. La proprietà privata comporta, invece, la sottrazione a tutti di una parte del territorio per cederlo a un singolo con la facoltà di alienarlo ad altri o di goderne in modo pieno ed esclusivo. Per fortuna la Costituzione ha rimesso tutto in equilibrio”.
In che senso?
La Costituzione riconosce la proprietà privata (art. 42) ma soltanto entro ben determinati limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale. Lo stesso discorso vale per l’iniziativa economica privata (art. 41) che è libera, ma allo stesso tempo non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Entrambe le norme, coordinate gli articoli 3 (principio di uguaglianza) e 36 (diritto ad una esistenza dignitosa) escludono l’accentramento delle risorse nelle mani di pochi che renderebbe impossibile una vita libera e dignitosa, a vantaggio della redistribuzione dei beni che consente un reale sviluppo economico, funzionale al pieno sviluppo della persona umana.
In concreto, dunque, che cosa bisogna fare per tutelare i beni comuni dal punto di vista giuridico?
Applicare la Costituzione e, dunque, riscrivere tutte le norme che riguardano la proprietà privata e sono in contrasto con quello che abbiamo affermato. Va abrogato l’art. 826 del codice civile che crea la categoria molto ambigua del patrimonio indisponibile dello Stato. I beni che vi rientrano possono essere venduti, ma, in teoria, l’acquirente dovrebbe mantenere in piedi la destinazione sociale. Cosa che, in realtà, non avviene, perché il privato fa quello che vuole. È necessario, altresì, modificare l’art. 832 c.c. secondo il quale il proprietario di un bene può disporne in modo pieno ed esclusivo. Questa previsione è superata dalla Carta. Allo stesso modo occorre agevolare il ritorno automatico nella proprietà collettiva dei terreni di cui il proprietario abbandoni la conservazione o la coltivazione ovvero di quei beni il cui deperimento ha per effetto di nuocere gravemente al decoro delle città o alle ragioni dell’arte, della storia o della sanità pubblica (art. 838 c.c.).

di Carmine Alboretti