PALERMO – In Libia la schiavitù è stata ripristinata. È quanto emerge dalle drammatiche voci di alcuni migranti sbarcati in Sicilia che, senza mostrarsi in volto, hanno voluto raccontare davanti alle telecamere del documentarista Michelangelo Severgnini e del giornalista Piero Messina la drammatica condizione in cui sono vissuti per molto tempo e in cui vivono ancora oggi migliaia di migranti provenienti dall’Africa nera. Subito dopo la diffusione del documentario il regista è stato travolto direttamente, attraverso i social, da centinaia di messaggi di migranti le cui agghiaccianti testimonianze sono state raccolte in un secondo lavoro, il radio documentario “Exodus-Fuga dalla Libia” che finora nessuna emittente ha voluto mettere in onda.
Dalle testimonianze raccolte nel suo documentario emerge chiaramente che in Libia esiste la schiavitù. Chi ne è, a suo avviso, responsabile?
«Ci sono responsabilità remote, intermedie e recenti. Quelle remote sono legate alla campagna internazionale per la cancellazione del debito, combattuta negli anni ’80, che non portò a nulla di concreto per l’avidità dei mercati occidentali. Il presidente del Burkina Faso Thomas Sankara che si rifiutò di pagarlo venne ucciso nel 1987. Negli anni successivi è cominciata in maniera esponenziale l’emigrazione dall’Africa verso l’Europa. Quelle intermedie sono collegate ai bombardamenti sulla Libia nel 2011 di cui Francia e Usa sono stati responsabili e che hanno portato alla caduta, per pura cupidigia, del regime di Gheddafi senza che vi fosse una società pronta a farsi carico della situazione post dittatura. Oggi in Tripolitania, nelle mani delle bande armate, vige la legge del più forte. Infine le ragioni recenti: Minniti, precedente Ministro degli Interni, a partire dall’inizio del 2017, ha pagato bande armate e tribù libiche per contenere i flussi. Ciò equivale a finanziare la schiavitù. L’attuale Governo ha invece potenziato la guardia costiera libica che intercetta e blocca i gommoni di migranti e li rinchiude nelle famigerate prigioni, ormai colonie di schiavi».
 Ci spiega come i migranti cadono in questa rete mortale?
«Vengono contattati dai membri delle reti criminali internazionali direttamente nei quartieri delle loro città o nei loro villaggi. I trafficanti promettono di offrire lavori o passaggi sicuri, nonostante la guerra in Libia, di cui i migranti sono a conoscenza.  La sorpresa arriva appena messo piede nel Paese, se non ancora prima, durante la traversata del deserto da Agadez in Niger. Nella prima città libica di Sabah, nel deserto, avvengono le aste degli schiavi: i migranti vengono legati, picchiati, venduti sulla base della muscolatura se uomini o dell’avvenenza se donne. Prima di riuscire ad imbarcarsi per l’Europa un migrante può essere venduto e rivenduto anche 3-4 volte. Poi ci sono quelli che non reggono fisicamente e muoiono». 
Queste persone che possibilità hanno di raggiungere l’Europa o di fare il viaggio a ritroso per tornare nel loro Paese?
«Direi scarse. Nel 2016, anno record di arrivi in mare dalla Libia, sbarcarono in Italia 180mila migranti. Meno di 100mila nel 2017 e finora poche decine di migliaia nel 2018. L’UNHCR stima in 700mila – 1 milione i migranti attualmente in Libia. Il loro sentimento diffuso è che se avessero saputo a cosa andavano incontro, nessuno si sarebbe messo in viaggio. Ora sono lì, in trappola, senza possibilità di tornare a casa – il passaggio di ritorno attraverso il deserto non è messo a disposizione delle bande criminali internazionali – né di venire in Europa». 
Poco dopo l’uscita del documentario “Schiavi di riserva”, premiato al Festival dei lavoratori di Istanbul lo scorso maggio, è stato letteralmente invaso sui social da messaggi di migranti che vivono in Libia in condizioni disumane. La loro unica richiesta è di tornare a casa.
«Non è l’unica. Molti a casa non possono tornare per questioni legate a conflitti o a discriminazioni politiche. Ma, pur con mio stupore, la maggior parte dei migranti che mi hanno contattato dalla Libia chiede voli per il rimpatrio, che peraltro già esistono. Nei primi mesi del 2018 l’UNHCR ha infatti rimpatriato 9mila migranti, ma è numero esiguo. L’altra richiesta pressante, in questo caso comune, è di evacuare tutti. Gli appelli che mi rivolgono i migranti in Libia sono per un intervento internazionale delle Nazioni Unite che riporti a casa chi vuole tornarci e verso l’Europa o paesi terzi chi non può tornarci». 
Affermare che i migranti oggi presenti in Libia devono tornare a casa non significa sposare le tesi di Salvini?
«Gli unici titolati a esprimersi sull’argomento sono i migranti stessi che grazie a internet possono raccontare in prima persona i loro drammi, e che vanno riconosciuti come soggetto politico e non come oggetto di politiche. Salvini può dire quello che vuole, così come la sinistra umanitaria anti-razzista. Queste persone, sfruttate e torturate, chiedono di tornare a casa e, secondo me, è ciò che va fatto con la necessaria presenza della Nazioni Unite e l’appoggio politico ed economico da parte dell’Europa. Riflessioni politiche ora non servono».  

di Ornella Esposito