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Vittime innocenti delle mafie, quando la memoria diventa impegno

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Il corteo annuale di Libera è il compendio di 365 giorni di impegno civile, che lenisce il dolore pur non potendolo cancellare del tutto. Cosa impossibile. I familiari delle vittime innocenti della criminalità organizzata, 1055 in tutt’Italia, marciano tra le strade di Napoli in occasione della ventisettesima giornata della Memoria e Impegno tra una nuova speranza per un futuro intriso di generale legalità e la voglia di non dimenticare quanto è a loro capitato, per fare in modo che ad altri non sia riservata la stessa sofferenza.

Le testimonianze – Pasquale Scherillo indossa una maglietta bianca con la foto di suo fratello Dario, ammazzato per errore a 26 anni a Casavatore nel 2004 durante la prima faida di camorra di Scampia. Scherillo, che gestiva una scuola guida, ha avuto l’unica colpa di possedere un modello di scooter uguale a quello di un pusher, vero obiettivo dei sicari che invece sbagliarono bersaglio. «Per noi familiari delle vittime – conferma Pasquale il fratello di Dario – il 21 marzo con Libera è una giornata importantissima perché racchiude il nostro impegno nell’arco di un intero anno. Non è un caso che questa giornata sia ribattezzata “Memoria e Impegno’’: memoria perché i familiari ricordano tutte le vittime e l’impegno di un anno che si conclude con la marcia». Purtroppo per la morte di Dario Scherillo non ci sono state condanne giudiziarie, una ulteriore onta da subire. Nonostante tutto, Pasquale guarda al futuro con ottimismo. «Nonostante il dolore, oggi ci sentiamo più forti perché il fatto di andare a parlare ai ragazzi delle scuole mi dà una motivazione. È cresciuta la consapevolezza del pericolo rappresentato dalla camorra, ora la gente non si gira più dall’altra parte come succedeva prima». Ne è convinta anche Natalia Gullì, figlia di Giuseppe farmacista rapito il 21 dicembre del 1980 a Montebello Ionico, un paesino della Calabria e mai più ritrovato. «Oggi c’è molta più coscienza oggi sulla pervasività della criminalità organizzata, ma si può fare uno sforzo ulteriore nel capire che il mafioso non è solo quello con il fucile. C’è il silenzio degli onesti, è quello che ci deve far paura oltre all’urlo dei cattivi». Natalia ricorda la storia di Giuseppe Gullì. «Mio padre ha detto di no a una richiesta di un mafiosetto del luogo. Volevano prendergli un terreno di sua proprietà ma lui si oppose dicendo che qualsiasi concessione sarebbe stata collusione. Per questo fu rapito e non è mai più tornato a casa. Ci sono state delle condanne e anche delle assoluzioni rispetto a questa storia. Siamo cristiani e cerchiamo il perdono, ma la ferita resta comunque aperta». Che il dolore presenti ogni giorno il suo conto lo dimostrano gli occhi lucidi di Rita Della Corte e Giuseppe Romano, i genitori di Lino Romano ucciso anch’egli per sbaglio nel 2012 a Marianella per un terribile errore di persona. Il trentenne operaio aveva appena lasciato la casa della sua fidanzata per recarsi a giocare a calcetto con gli amici. Non appena in strada, i killer lo colpirono senza capire l’errore. Papà Giuseppe dice: «Ci hanno distrutto la vita, è impossibile spiegare cosa si prova a vivere una situazione del genere. Ma cerchiamo di resistere grazie anche all’appoggio di Libera e dei carabinieri, che ci stanno vicini ancora oggi. Ci sono state 7 condanne, tra questi 3 ergastoli, per la morte di un innocente come Lino. La giustizia è arrivata». Un viatico per impegnarsi a ricacciare i tentacoli della camorra. «Finchè ce la faremo, saremo sempre in piazza e onoreremo il sorriso di Lino. Abbiamo dei nipoti e per loro e per i giovani non molleremo per costruire una società migliore» afferma tra le lacrime Rita, la mamma di Lino.

Le contraddizioni della giustizia – Susy Cimminiello è la sorella di Gianluca, il tatuatore ucciso nel 2010 dai sicari della camorra dopo un litigio social con un altro tatuatore poi degenerato. L’unica colpa era stata stata quella di aver postato la foto con un famoso calciatore del Napoli. Gianluca si difese prima da un’aggressione sfruttando le sue abilità nelle arti marziali, ma poi non riuscì a schivare i colpi di pisola. «Mio fratello – afferma Susy Cimminiello, nel recente passato assessore alla Seconda Municipalità di Napoli – profuma ancora di vita. Pensavano di seppellirlo ma lui ha seminato talmente tanto amore che è impossibile dimenticarlo. Io non so dare i pugni ma mi sono difeso leggendo le carte e sperando nella giustizia» con ben 8 processi conclusisi con diverse condanne per mandanti ed esecutori. «Il mandante morale, l’altro tatuatore, sempre libero» aggiunge la Cimminiello. Ma le contraddizioni in Italia sono all’ordine del giorno e quello che sta coinvolgendo la famiglia Cimminiello lascia l’amaro in bocca. A parlarcene è sempre Susy: «Sto lottando per far riconoscere dei diritti a mia madre alla quale è arrivato un avviso di rigetto da parte del Ministero. Lei, nel 1984 denunciò un reato grave commesso ai nostri danni nei nostri confronti da mio padre, che subì una condanna per quella condotta e dopo 10 anni anche un’altra per mancata sussistenza». Ma cosa dice quel rigetto, per il riconoscimento dei risarcimenti, del Ministero? «Che su mio fratello ucciso – spiega Susy – ci sono tutti i requisiti oggettivi e soggettivi mentre mamma annovera tra i familiari persone con reati seppur non ostativi e non definitivi Ciò fa intendere che mia mamma potesse essere vicina ad ambienti delinquenziali. Quindi, secondo questa logica, oramai 40 anni fa mia mamma non avrebbe dovuto denunciare. Ora dovrò affrontare una causa con lo Stato italiano, lo stesso che dovrebbe tutelare i familiari delle vittime innocenti di camorra».

di Antonio Sabbatino

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