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Dare voce al bene: la cultura come lievito di cambiamento

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Quando penso al lievito – da appassionata di cucina – lo immagino come un organismo vivo, delicato e capace di trasformare in profondità. Tuttavia, senza ingredienti di qualità, tempo e cura, anche il lievito più vigoroso fallisce: l’impasto diventa povero, indigesto o persino dannoso.
Questa metafora, semplice ma incisiva, racconta il tessuto sociale. Considerando i soggetti civici come “grani antichi” -custodi di biodiversità, tradizione e sapore autentico – e la cultura come lievito, si intuisce che costruire comunità sane, inclusive e rigenerative richiede un impasto curato: scelta attenta, dedizione costante e pazienza. Al contrario, se impieghiamo “grani moderni” impoveriti – esperienze distorte, rappresentazioni falsate, linguaggi tossici – otteniamo narrazioni sterili, incapaci di nutrire e rigenerare il nostro vivere collettivo.
In questo scenario, il ruolo dei media è cruciale. Non sono la cornice, ma una parte sostanziale del contenuto: modellano visioni del mondo, orientano l’immaginario collettivo, costruiscono ponti tra territori, generazioni, storie. Ecco perché la comunicazione sociale non può più essere relegata ai margini. È tempo di riconoscerla per ciò che è: una leva strategica per costruire consapevolezza, coesione e cambiamento culturale.
La comunicazione sociale dà voce ai volontari che animano i quartieri, agli operatori che si prendono cura degli ultimi, ai cittadini che costruiscono legami e inventano soluzioni. Racconta ciò che spesso resta invisibile: la forza trasformativa della cittadinanza attiva. Ma per farlo davvero, deve uscire dalla comfort zone. Deve sperimentare linguaggi nuovi, contaminarsi con l’arte, con il cinema, con le serie TV, con le piattaforme digitali. E deve trovare spazio anche nei palinsesti della televisione pubblica.
Esiste una distanza sempre più pericolosa tra ciò che accade nei territori e ciò che viene rappresentato nei media. Ma sappiamo, anche grazie a solide ricerche scientifiche, che dove si investe nel volontariato, si sviluppano capitale sociale, economia di prossimità, benessere condiviso. Il volontariato non è beneficenza: è infrastruttura democratica.
È motore di sviluppo. È rigenerazione, nel senso più concreto del termine. Dunque, serve un cambio di passo culturale. Riconoscere che tra istituzioni e cittadinanza attiva c’è interdipendenza. Che la rigenerazione nasce dal basso, ma ha bisogno di politiche pubbliche lungimiranti. Che la cultura, se nutrita di senso e pluralità, può davvero essere la leva del cambiamento.
In questo contesto, l’industria cinemato- grafica riveste un’importanza cruciale: non è solo intrattenimento, ma genera immaginario, stimola empatia e svolge un ruolo di pedagogia sociale. Dal 2020, negli Stati Uniti le piattaforme di streaming hanno introdotto clausole contrattuali vincolanti che impongono soglie minime di rappresentazione etnica e di genere in ogni nuova serie TV. Queste serie hanno influenzato profondamente i giovani, spingendoli ad affrontare con spontaneità temi come bisessualità, fluidità di genere e diversità razziale. Perché, allora, non proporre anche in Italia un’iniziativa altrettanto ambiziosa?
Ogni racconto sulle mafie – e in particolare sulla camorra – dovrebbe dare voce anche a chi resiste: a chi, lontano dai riflettori, combatte il degrado tessendo legami quotidiani; a chi trasforma una piazza abbandonata in un presidio educativo; a chi cura, protegge e semina speranza, dando forma a un futuro possibile.
di Giovanna De Rosa
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