Ci ha lasciato il più grande giocatore di calcio di tutti i tempi. Nel numero di febbraio di questo anno stranissimo avevamo chiesto ad Anna Trieste, giornalista e scrittrice, di raccontarci come lo sport poteva essere riscatto. Anna scelse di partire proprio da Diego, dalla sua vita, dal suo rapporto con i più deboli di Napoli. Vi riproponiamo questo articolo che vuole essere il nostro piccolo omaggio all’unico numero 10 di sempre.

A molti non piacerà (e ce ne faremo una ragione) ma per esprimere in una sola frase tutto il potenziale che ha lo sport nell’abbattere barriere e costruire ponti, più che le massime probabilmente mai pronunciate da nobili francesi appassionati di olimpiadi val bene ricordare quello che disse, una volta giunto in Italia, un calciatore argentino nato e cresciuto nelle favelas: “Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli perché loro sono come ero io a Buenos Aires”. Ecco. Questo disse appena atterrato a Napoli Diego Armando Maradona. E in quella frase che poteva sembrare solo una promessa di risultati calcistici ma che in realtà era anche e soprattutto un manifesto politico e sociale, Diego non fece riferimento
sic et simpliciter ai bambini ma si rivolse esplicitamente a quelli “poveri”, facendo subito intendere che sì, la sua avventura a Napoli avrebbe avuto molto a che fare con il calcio ma ancor di più con lo sport e la sua capacità di abbattere le disuguaglianze. Con il suo esempio, insomma, Maradona andava in giro a dimostrare che grazie allo sport anche un bambino
povero di Buenos Aires poteva diventare campione del mondo. Da quella frase, però, sono passati più di trent’anni e ormai anche in Italia e a Napoli il calcio è una cosa da ricchi. Come lo sport in generale, del resto. Lo ha detto l’Istat tre anni fa nell’ultimo rapporto a ciò dedicato. “La buona disponibilità economica facilita la pratica di attività specialmente
nei contesti organizzati a pagamento” per cui vista la contestuale penuria di strutture pubbliche, in Italia a praticare sport con continuità sono quasi solo ormai i laureati e i percettori di redditi medio – alti (piazzati peraltro nelle regioni del Nord Italia). E la disuguaglianza regna non solo in mezzo ai campi ma pure sugli spalti dove tra razzismo e intolleranza (ben sopportati dalle istituzioni) i prezzi per assistere agli eventi sportivi schizzano sempre più in alto finendo con l’escludere intere fasce di popolazione e rendendo sempre più anche il calcio, sport popolare
per eccellenza, un lusso esclusivo per ricchi. Eppure, in quanto sport più diffuso in Italia assieme al nuoto e al fitness, il calcio dovrebbe concorrere a promuovere in senso inclusivo il cambiamento della società di cui è specchio. A quanto pare, però, questo obiettivo appare più facilmente raggiungibile quando il pallone rotola lontano dai riflettori. Come se fosse lo “showbiz” a impedire allo sport di favorire inclusione e integrazione in
nome del profitto. “A mano a mano che lo sport si è fatto industria – scriveva Galeano – è andato perdendo la bellezza”. E anche la sua capacità di includere e integrare, si potrebbe aggiungere. E infatti, basta allontanarsi un attimo dal regno delle pay tv per vedere come lo sport sia davvero in grado di compiere il miracolo.
Succede a Castelvolturno dove la squadra di basket “Tam Tam” pone concretamente le condizioni per la convivenza pacifica tra comunità locale e immigrati africani. O a Mugnano con l’AfroNapoli che forma calciatori e cittadini consapevoli a prescindere dal reddito o dalla nazionalità. O nella zona orientale di Napoli dove tantissime scuole calcio come la Futura
Soccer Academy per superare le barriere di censo mettono gratuitamente a disposizione dei bambini meno abbienti strumenti, insegnanti e strutture. Questo fa lo sport. E questo deve fare. Tutto il resto è spettacolo. E si paga pure a caro prezzo…

di Anna Trieste