Con “La Bella Indifferenza”, dato alle stampe da Bompiani nel marzo scorso, Athos Zontini, scrittore e sceneggiatore napoletano, confeziona un secondo libro sghembo e maledettamente sincero, nel senso di impietoso, con cui va a scoperchiare, nel suo stile grottesco e ironico, quella patina melmosa e spesso insignificante di cui sono ricoperte, se non addirittura impastate, le relazioni familiari e sociali sempre più spesso riassunte in qualche post.

La storia, narrata nell’arco temporale autunno-primavera, è quella di Ettore Corbo, commercialista che lavora nell’avviato studio di famiglia, noiosamente sposato con Marta con cui da tempo provano ad avere un figlio, al quale una mattina accade di svegliarsi e vedere degli ovali al posto dei volti delle persone. Di colpo scompaiono insieme alla mimica facciale anche le emozioni, le aspettative, i desideri.

«Un malessere che non rientra in nessuna patologia psichiatrica, nessuna definizione di delirio, psicosi o altro», gli dice il medico a cui si rivolge.

«È come se lei avesse trasferito sul corpo, sull’alterazione di una funzione, in questo caso la vista, quello che è un disturbo dell’anima […] qualche volta è così l’anima, o la coscienza, ci parla attraverso il corpo».

Di qui Ettore Corbo, tracannando senza controllo gocce di xanax, compie una carrellata di stranezze (secondo il giudizio di chi gli vive intorno) quando in realtà, grazie alla malattia della bella indifferenza, è l’unico ad avere il coraggio di squarciare il velo del bon ton sociale e familiare arrivando addirittura a sentire (e a farci sentire) il calore umano in Jasmine, una carnale bambola gonfiabile noleggiata ad ore.

Le pagine de “La Bella Indifferenza” hanno un andamento lento e indolente, con tratti di velocità. Zontini ci spinge dentro una bolla di noia, nei meandri di un grigiore dell’anima che tuttavia è solo apparente perché, in realtà, Ettore Corbo, incarnazione del malessere che attanaglia una parte di noi, è l’unico ad avere spessore umano perché l’unico a ribellarsi allo stato delle cose. L’unico sano perché disadattato, almeno secondo i canoni vigenti.

Come in “Orfanzia”, il libro di esordio di Zontini, anche qui il protagonista riesce a stare meglio quando devia della regole, quando commette azioni violente (non che lo scrittore inneggi alla violenza, ma si serve di essa a mo’ di iperbole), quando si libera del falso sé.

E sempre come in “Orfanzia” lo sfondo geografico non è mai nettamente riconoscibile, forse intuibile, perché le storie di Zontini sono e ‘pretendono’ di essere universali appartenendo agli essere umani; la città si intravede per quanto è necessaria alla narrazione perché a farla da padrone sono i paesaggi dell’anima, svestita del volto.

Ed ecco che ci arriva in faccia un ammasso di ovali inespressivi, di strade affollate, condomini menefreghisti, avventori di bar, fino a ritrovarci casualmente nel caos anonimo di un corteo colorato e festoso, un contraddittorio non-luogo, che per contrasto risalta la solitudine di Ettore Corbo seduto su di una panchina abbracciato a Jasmine come «due alla fine di un viaggio, con la stessa aria stanca, senza la felicità di chi ritorna».

Un libro ben scritto che non ci consegna nessuna certezza, ma per fortuna molti dubbi sulla vita, sulla ricerca di un qualche suo senso e sulla possibilità che non ve ne sia alcuno.

di Ornella Esposito

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui