HANOI. Nello stabilimento Samsung che si trova in Vietnam c’è il 20% della produzione mondiale di cellulari della società di telefonia. Si trova nei dintorni di Hanoi, dove un tempo c’erano enormi distese di risaie: oggi quelle zone vengono definite “parchi industriali” e, oltre alla Samsung, accolgono anche la Canon e la taiwanese Foxconn. A Vinh Phuc, invece, è la Piaggio ad aver inaugurato un nuovo stabilimento appena qualche anno fa. Poli produttivi. Come quelli negli ex teatri di guerra a Delta del Mekong e a delta del fiume Rosso: nel primo si concentra il 35% del pil vietnamita, nel secondo il 25. Il Vietnam, del resto, è una nazione che cresce a ritmi sostenuti. La nuova Cina, la chiama qualcuno. Anche perché molte aziende stanno lasciando il territorio cinese proprio per spostarsi nella nazione vicina. Spiega Johan Kruimer, managing director della Ho Chi Minh City Securities Corporation.
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“E’ una questione di costi e produttività. Il mensile medio di un colletto blu vietnamita è di circa ottanta dollari, contro i duecento del cinese. Senza contare che il vietnamita è spinto da una motivazione più forte: dopo mille anni di guerre, la sopravvivenza resta il primo pensiero, la volontà di assicurarsi un futuro migliore è feroce”. Non tutti, però, ce la fanno. Chi entra in fabbrica triplica il suo salario ma chi resta ai margini deve arrangiarsi. Non che manchi il lavoro, anzi: la miriade di fabbrichette del settore dell’abbigliamento e calzaturiero, che producono in nome e per conto delle principali multinazionali, cerca sempre personale. Ma le condizioni in cui si lavora sono definite “inaccettabili” dallo stesso ministero della salute vietnamita. E lo stipendio è una miseria. È il Vietnam della contraddizioni: quelle di un regime comunista che fa affari con Usa e Europa, che costruisce strade e aeroporti (sia a Ho Chi Minh City che a Saigon ci sono decine di cantieri aperti) ma conserva un paesaggio fatto di villaggi con case fatiscenti. Lo scorso settembre bastò un week end di forti piogge a causare 32 morti: vie allagate e case che venivano giù come se niente fosse. È l’Asia che cresce a ritmi vertiginosi. Senza regole, ma cresce. Cresce anche la Cambogia, dove la guerra è finita più o meno venti anni fa. Sotto l’egida dell’Onu si svolsero nel marzo 1993 le elezioni e parteciparono al voto più di 4 milioni di persone (ovvero più del 90% degli aventi diritto al voto) nonostante le forze degli Khmer Rossi cercassero di impedire alla popolazione di andare a votare. Da allora il governo (vige una monarchia costituzionale) spinge sull’acceleratore, anche a costo di perdere chi rimane indietro. Davanti ai i templi di Angkor Wat, tra le attrazioni turistiche più belle e suggestive del mondo, si contano centinaia di bambini intenti a chiedere l’elemosina. Hanno imparato a memoria “one dollar” e lo ripetono in continuazione, tendendo la mano. All’ingresso dei siti archeologici, poi, si piazzano piccole bande musicali, formate da reduci di guerra o vittime delle mine antiuomo. Il governo non può mantenerli e li ha autorizzati ad esibirsi in cambio di qualche spicciolo da parte dei turisti. Dalle parti della capitale Phnom Penh, inoltre, è esplosiva la questione degli sgomberi: decine di migliaia di persone sono state costrette a sfollare dalle terre che abitavano per fare posto a progetti commerciali, piantagioni, resort turistici o progetti industriali. E chi li ha difesi si è trovato a dover affrontare un processo, quando non è stato arrestato. È così che cresce l’Asia: con la fretta di recuperare il tempo perduto a causa delle guerre e senza badare troppo a chi non ce la fa.

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