“Non è un destino”, come titola il libro appena pubblicato da Lella Palladino (edito da Donzelli). La violenza alle donne non è qualcosa da accettare passivamente come se fosse inscritta nel loro DNA. Qualcosa che esiste e basta, il destino, appunto, di ogni donna.

Non è così. Le donne ne possono uscire, possono cambiare il corso di quel destino, sottrarsi al giogo della forza maschile e trovare la propria strada. Come è successo a tutte quelle che Lella Palladino, sociologa, presidente di Di.Re., ha incontrato in oltre trent’anni di lotta alla violenza maschile e soprattutto agli stereotipi che l’avvolgono intrappolando il pensiero dentro una rappresentazione errata del fenomeno e orientando, di conseguenza, le scelte politiche. Lella Palladino quegli stereotipi li capovolge, sovverte la narrazione della cultura dominante e arriva dritta, come è nel suo stile, al punto: l’atavica mancanza di potere delle donne.

Per prima cosa l’autrice fa una scelta di campo: nessuna sequenza morbosamente splatter di vittime ammazzate dai propri compagni (per questo ci pensa già “Amore Criminale”), ma una carrellata di volti e sentimenti di donne che hanno preso per mano il coraggio, si sono affidate, e hanno detto “basta”.  Lella Palladino le chiama principesse, anche se la loro vita non assomiglia ad una favola, nemmeno quando fanno ingresso in casa rifugio, perché il loro coraggio le ha rese tali e anche perché, liberatesi dalla morsa del maltrattamento, rifioriscono. Dunque, parlare della violenza diffondendo speranza.

A proposito di parole l’attivista nel suo libro-manifesto ammonisce: “nominare correttamente i problemi è il primo passo per cominciare a comprenderli e ad affrontarli, ma il potere comunicativo della nostra cultura dominante, diffusamente patriarcale, ha sapientemente acquisito il linguaggio di impostazione femminista depotenziandolo nella sostanza”. Oggi con sempre più frequenza corrono notizie relative a donne ferite, bruciate, soffocate, accoltellate, tutte bollate come «omicidi d’impeto» o «passionali», drammi della gelosia, «raptus» improvvisi che scatenano la follia assassina di bravi padri di famiglia. Giornali e giornalisti hanno adottato il termine femminicidio per indicare la morte di una donna per mano del suo uomo.

L’autrice, invece, ci spinge ad un’analisi profonda e impietosa del fenomeno: “alla base della violenza maschile, fortemente radicata nell’ordine simbolico, c’è la mancanza di potere e la discriminazione persistente nei confronti delle donne, eterne seconde”. Una visione che chiama in causa le caratteristiche strutturali di questo odioso cancro e che impone – scrive la presidente di Di.Re. – “una prospettiva politica, in grado, cioè, di tener presente che a essere «malate» non sono le persone – gli autori della violenza che nella maggior parte dei casi sono perfettamente consapevoli dei propri agiti, o le vittime, delle quali, quasi sempre, non solo da parte di chi adotta un’ottica sistemico-relazionale, vengono sottolineate le responsabilità nel consentire la violenza – ma la struttura sociale”.

Perché, ci si domanda, questa ottica sfugge a tutte le analisi sul fenomeno? Perché “ammettere il persistere del potere maschile implica dover fare i conti con il fallimento delle politiche di mero riconoscimento della parità”. Qui, Lella Palladino traccia il solco per un’altra domanda. Quali politiche sarebbero necessarie, allora?

“Piuttosto che intervenire sempre a valle sarebbe molto più efficace, meno dispendioso e soprattutto vero motore di cambiamento, correggere a monte la riproduzione delle disparità e asimmetrie di potere” e mettere in campo azioni concrete ed efficaci di prevenzione, assai poco praticate nel nostro Paese, abituato a correre ai ripari sempre dopo le tragedie.

Politiche che l’autrice scorge ancora molto poco all’orizzonte.

di Ornella Esposito