spesaSALERNO – «Ho sempre pensato che il ruolo di imprenditore fosse strettamente connesso alla società in cui vive e che l’agire di ognuno di noi non sia slegato da quello degli altri. Per questo l’impegno che fin da ragazzo ho profuso nel sociale aveva necessità di manifestarsi in qualche modo. Anche ora, dopo tutto questo». Giuseppe Amato junior, il rampollo della dinastia d’imprenditori della pasta coinvolto in vicende giudiziarie in seguito al crac dell’azienda di famiglia, e condannato a venti mesi di carcere per aver violato le restrizioni degli arresti domiciliari successivi al patteggiamento nella vicenda del fallimento del pastificio, ha scelto la strada del volontariato per dare un senso diverso all’espiazione della sua pena e alla sua “seconda vita”. Si impegna, infatti, ad aiutare l’attività del Social Market di Salerno, il primo supermercato solidale in Campania, realizzato da Rete Solidale.

GIUSEPPE AMATO – «Nonostante sia ancora nella fase in cui sto espiando la mia pena, – racconta Giuseppe Amato, peraltro affidato dai servizi sociali come commesso in una nota attività commerciale del centro storico cittadino, – ho pensato che una delle cose da fare in questo momento fosse impegnarmi in qualcosa che mi facesse stare bene, facendo stare bene gli altri. Conoscendo Carmen Guarino, direttrice di Rete Solidale, mi sono unito a loro in questa iniziativa, dando da subito la mia disponibilità. Grazie anche alle mie relazioni lavorative e ai contatti con Confindustria, Confagricoltura, Coldiretti, Federalimentare, ho avuto modo di avvicinare delle imprese esponendogli il progetto, riscontrando disponibilità». Giuseppe Amato non è nuovo al terzo settore, il suo interesse ha in realtà origini radicate nel tempo: «la mia famiglia ha sempre avuto una grandissima attenzione alla presenza dell’imprenditore sul territorio». Amato racconta che anche durante il periodo duro della detenzione ha visto e sentito il bisogno dell’uomo di rapportarsi con gli altri: «Ho provato a mettere a disposizione le mie conoscenze, così come c’era il ragazzo che sapeva cucinare o riparare gli spifferi delle finestre che venivano a turbarti il sonno la notte, io sapevo invece scrivere una lettera, scrivere un’istanza, insegnare l’italiano a chi non lo sapesse parlare, in questa stessa logica sempre di scambio. Certo in carcere ci va chi ha sbagliato, me compreso, e il primo pensiero va sempre alle vittime degli errori: chi si trova dietro le sbarre in linea di massima ha sbagliato, poi però esiste una realtà umana e a contatto con le persone ti compenetri e capisci che quegli errori, in parte, li comprendi. Giustificare implica un giudizio, mentre comprendere implica un ascolto».

IL FUTURO – Giuseppe c sembra non volersi fermare mai, come se quei 13 anni di lavoro ad alti ritmi, turbati poi dall’immobilismo forzato, lo avessero fagocitato in un bisogno di fare. Ora vede tra i suoi progetti futuri la possibilità di insegnare l’italiano ai bambini stranieri grazie alla collaborazione con un’associazione legata al centro di solidarietà “La Tenda” di Don Nicola Bari, che da maggio organizzerà dei corsi di italiano ed educazione civica per bambini migranti. «Il mio domani lo vedo teso al creare reti, sviluppo».

di Sara Botte

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