1462868_462596430515941_741157542_nALESSANDRIA – Sposato, con un figlio e due nipotine che lo adorano. La testa completamente bianca, racconta dei suoi giovani settant’ anni. Quando è in Italia, vive ad Alessandria, ma è sempre pronto a salire su un aereo per scappare lontano dalla sua seconda allargata famiglia. Ha un segno particolare: nelle vene gli scorre l’Africa. Una dedizione assoluta per una terra che, apparentemente straniera, è diventata la “casa che sente da sempre sua”, così come la gente stanca, distrutta, affamata, malata, che ha scelto di amare, di non lasciare più e in cui si riconosce più d’ogni altra cosa.
LA STORIA – Partiamo dal coraggio, dalla forza e forse da  tanta  incoscienza, per  raccontare la storia di un uomo che ha completamente rivoluzionato la sua esistenza. E’ il 1999, Antonio Carovillano è in pensione, dopo una vita nelle poste. Si dedica da sempre al volontariato, ma da quando ha smesso di lavorare, diventa un impegno costante. L’incontro che segna la svolta, avviene in un ospedale, mentre presta assistenza ai pazienti. Un frate francescano, Emilio Ratti, è lì per un appuntamento. Sta facendo visionare foto dell’ultima missione in cui è impegnato. Antonio, si avvicina, guarda attentamente gli scatti. Due occhi neri e grandi che chiedono aiuto, lo rapiscono. Decide che deve incontrarli: « Posso partire anch’io?». «Sì, ma a tuo rischio e pericolo», risponde il frate. Inizia tutto così, dal nulla, per caso.
UN VIAGGIO DI SOLO ANDATA – Arriva in Congo, nel pieno della grande guerra africana, che causò circa 5,4 milioni di morti. Una cicatrice, gli ricorda, la pallottola che lo colpì. Vicino Bakuba, vengono costruiti due ospedali, un ponte e una scuola. Segue il Ruanda, che porta i segni del genocidio scatenato dalla lotta tra Hutu eTutsi. Ma non finisce qui. C’è anche il Burundi, l’Honduras, dove prende la malaria, aiutando i bambini e gli adolescenti abbandonati, e poi, il Madagascar. Antonio, decide di stabilirsi, finalmente. Giunge nel Sud Sudan, in un villaggio di Yei a circa 180 km dalla capitale Juba. E’ qui, che metterà radici e tutto se stesso. Oggi, lavora ossessivamente al nuovo progetto: trasformare il lebbrosario di Santa Bakita in un centro ospedaliero che prevede la costruzione di un reparto di medicina interna, un reparto di ginecologia, uno di pediatria ed una sala operatoria. «Di mattina- racconta- divento un tuttofare, sono meccanico, falegname, operaio. Di sera, assisto, lavo e medico i lebbrosi. In Africa, se non sei pronto a tutto, non servi». Antonio, collabora con la onlus “Casette per l’Equatoria”, che assieme ai “ Medici per l’Africa”, sta facendo tanto per la popolazione del Sud Sudan.« E’ grazie a loro -dice- che appena ultimato il nosocomio, queste persone avranno la possibilità di essere curate. Arriveranno, infatti, dei dottori esperti. Sto preparando personalmente dei tucul, in grado di ospitarli».
QUEL MAL D’AFRICA – Gli chiedo se è un’esagerazione.« Esiste, e come se esiste -spiega Antonio-  L’Africa, diventa malattia e cura. Quando ci sei dentro, avverti tutti i sintomi, quando sei fuori, l’unico modo per stare bene, è tornarci. Aiutare, salvare  i bambini, portando loro medicine, camminando per ore intere per raggiungere fatiscenti villaggi, per poi vederli sorridere, saltarmi al collo, chiamarmi “ papà”, giustifica qualunque sacrificio e rinuncia. E non ha prezzo». Pare proprio, che dall’altra parte del cielo, in una terra dimenticata, c’è una risposta che si svela profondamente solo a chi ha il coraggio di “osare”. E’ a questi piccoli eroi dei nostri giorni, che il senso della vita, si fa certezza, quando chiedendosi che cos’è la felicità, ogni volta rispondono, credendoci: “ dare”.
 

                                                                                                                                                       di  Carmela Cassese

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