ROMA. Nell’ultima stagione di raccolta degli agrumi sono stati oltre 2000 i migranti impiegati come braccianti nella Piana di Rosarno. I dati, che provengono dalla Prefettura insieme con altre fonti ufficiali, raccontano di uomini principalmente provenienti dall’Africa subsahariana (il 22% dal Mali, seguono il Senegal con il 15%, Guinea con il 13%, e la Costa d’Avorio con quasi il 12%), con un’età media di 29anni (la fascia d’età degli over 31 è preponderante con il 46% dei lavoratori). E senza permesso di soggiorno: il 72%, infatti è irregolare contro il 28% dei regolari. Inoltre la quasi totalità degli intervistati ha lavorato in nero (90,7%). A dirlo è il Dossier Radici-Rosarno, un monitoraggio effettuato nel periodo autunno-inverno 2011 e 2012, da Fondazione IntegrA-Azione e Rete Radici. Il volume, che ha indagato le condizioni lavorative, abitative e sanitarie e il livello di integrazione dei migranti, è stato presentato oggi a Roma.

STATUS GIURIDICO – Secondo il rapporto, l’80% della popolazione immigrata a Rosarno e nei territori circostanti ha avanzato domanda di protezione internazionale. Tra quelli che sono riusciti a ottenere il riconoscimento, e dunque hanno concluso il loro iter burocratico, però, la maggior parte resta incastrato in un limbo giuridico che compromette la qualità della vita, fatto di attese (3,3%), dinieghi (54,2%) e ricorsi (3,3%). «È provata la difficoltà degli stranieri a comprendere il complesso coacervo di leggi che li riguarda. Addirittura risulta incomprensibile la logica stessa del sistema che li obbliga in una zona grigia più che rischiosa – si legge nella relazione del dossier – inutile dire infatti, quanto una condizione del genere renda fragile un individuo, soprattutto se richiedente asilo o in attesa del ricorso, rispetto a casi di sfruttamento lavorativo e capacità personali di pianificare alternative». Il documento in loro possesso, infatti, non è spendibile per l’ottenimento del lavoro: in sostanza, non possono lavorare e dunque essere assunti regolarmente, non hanno diritti e, di conseguenza, diventano ricattabili, merce a basso costo sul mercato del caporalato, manodopera d’occasione. «È proprio la burocrazia lenta e farraginosa a imprigionarli in un girone infernale dal quale non sempre è facile uscire – continua – senza documenti, i migranti semplicemente non esistono, spesso però il migrante partito e arrivato in Italia è l’unico che possa provvedere al sostentamento della famiglia nel Paese d’origine».

LAVORO – Ben il 90,7% degli intervistati lavora in nero (contro il 75% dello scorso anno): dalle ispezioni effettuate dalla direzione provinciale del Lavoro di Reggio Calabria in tutta la Piana di Gioia Tauro, infatti, su un totale di 1082 posizioni lavorative verificate, solo il 9% riguarda cittadini extracomunitari. I salari del 55,6% dei campesinos si aggirano tra i 20-25 euro per 8-10 ore lavorative al giorno (contro il 76,37% dello scorso anno) e aumentano i lavoratori pagati “a cassetta” (37,4% contro il 10,44% dello scorso anno), con un prezzo standard di 1 euro a cassetta per i mandarini e 0,50 euro per le arance. Mediamente il 60% di loro riesce al lavorare dai 3 ai 4 giorni a settimana, ma una percentuale consistente di braccianti, e cioè il 24,7%, lavora meno di 2 giornate a settimana. Secondo l’indagine l’87% degli stagionali svolgeva lavori manuali nel paese d’origine, ma con una grande varietà professionale: a raccogliere le arance di Rosarno sono sarti, meccanici, saldatori e elettricisti. Ma anche ragazzi che nel loro paese erano studenti, poliziotti, agenti assicurativi, politici locali e soldati dell’esercito. Arrivare a Rosarno ha significato livellarsi all’unica domanda di lavoro possibile e perdere la propria specificità.

CAPORALATO – Il caporalato resta un’abusata modalità d’ingaggio. Sebbene infatti la metà degli intervistati ha dichiarato di trovare lavoro in piazza, ben il 20% dichiara di trovare lavoro tramite un “kapò migrante” (quasi il 5% tramite un kapò bianco), ovvero una figura di intermediario tra il gruppo degli africani e i datori di lavoro. «La figura del caporale, va detto, è cambiata nel corso degli anni per via anche del ruolo fondamentale di mediazione culturale che figure interne alle comunità straniere possono assumere per via della conoscenza della lingua italiana – sottolinea il rapporto – i kapò provvedono a fornire l’ingaggio e spesso trattengono una percentuale della paga giornaliera che si attesta tra i 2,5 e i 4 euro a lavoratore». La figura del kapò è cruciale anche quando si analizzano le modalità di spostamento per raggiungere il posto di lavoro: il 26% ricorre ai loro mezzi, naturalmente a pagamento.

QUALITA’ DELLA VITA – Un migrante su due spedisce parte dei guadagni alle famiglie lasciate nei paesi d’origine. Il 37,6% dichiara di vivere con nulla o molto poco (da 0 a 50 euro a settimana), con alloggi di fortuna, come i casolari abbandonati senza acqua né luce né gas e mangiando alle mense della Caritas. Sono pochi quelli che riescono a vivere con più di 100 euro a settimana (2,7%) e pochissimi coloro che vivono con 200/300 euro al mese (il 17,4%). Ne consegue, inevitabilmente, soluzioni di alloggi di fortuna in condizioni igienico sanitarie spaventose, una dieta alimentare insufficiente e squilibrata e la mancanza di prevenzione, che aggiunte a un’attività lavorativa sfiancante, determina un precario stato di salute. Infezioni alle vie respiratorie (dovute in molti casi all’uso di sostanze chimiche nei campi), aggravate dal freddo e dal fumo dei fuochi accesi per riscaldarsi, disturbi dell’apparato gastrointestinale per via di diete povere e dall’utilizzo di acqua non potabile e malattie infettive rendono questi lavoratori affetti da un numero elevato di patologie professionali.

di Mirella D’Ambrosio

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