di Walter Medolla
REGGIO CALABRIA. La notizia rimbalza dal Regno Unito, ma noi di Rosarno già sappiamo. La storia è interessante e quindi il sito di the Ecologist,con il suo inviato Andrew Wasley, racconta ai suoi lettori da dove vengono le arance per le bevande analcoliche che troviamo sugli scaffali di tutta Europa. La frutta viene dal sud Italia, da quella lingua di terra che è la Calabria, da quel paese di 18mila anime che è Rosarno. «Vengono dall’  Africa – Ghana, Burkina Faso, Costa d’Avorio – e vivono in un campo squallido, dove, a detta dei medici, le condizioni sono peggiori che in campi profughi in zone di guerra», si legge nell’articolo del collega inglese, che prosegue «ogni inverno, ben 2000 migranti si recano in questo piccolo paese agricolo a raccogliere arance che finiranno in vendita nei mercati e nei supermercati, o nei succhi e concentrati utilizzati nella fabbricazione di bevande analcoliche». Nel reportage si legge delle cattive condizioni in cui vivono i migranti, molti dei quali irregolari, e della paga da miseria che gli viene corrisposta (25 euro a l giorno, ndr). Nel pezzo si legge anche delle denunce e delle segnalazioni fatte dagli attivisti alle grandi multinazionali e alle aziende alimentari,  ma tutti negano o dicono di non sapere dello sfruttamento di mano d’opera. La cosa che lascia perplessi é che dal gennaio 2010, passati alle cronache come “la rivoluzione dei braccianti”, a Rosarno nulla é cambiato neppure minimamente: di seguito vi riproponiamo un estratto del nostro reportage che ci vide proprio in quei giorni presenti a Rosarno per dare voce agli ultimi, seguendo l’esempio dei colleghi inglesi, affinché l’attenzione sui diritti dei migranti e dei lavoratori resti sempre alta.
 

Come le arance si trasformano in kiwi

Questa è la storia di come delle arance diventano kiwi. Certo una storia strana che lascia l’amaro in bocca dopo che la si è vista e raccontata. Lo storia comincia a Rosarno, o meglio qui si sviluppa in tutta la sua crudezza. Provincia di Reggio Calabria , un paesino da 18.000 anime. La storia, se proprio gli si vuole trovare un’ inizio, comincia a metà degli anni ’90, ma forse le radici si perdono nei secoli passati. Si, perché a farla da protagonista è la n’ndrangheta, qui ci troviamo, infatti, nella piana di Gioia Tauro a pochi kilometri dalla locride, storica roccaforte dei potentati mafiosi del luogo. A Rosarno arriviamo a metà febbraio ad un mese e più dagli scontri di inizio anno, tra la popolazione e gli immigrati. All’arrivo, da subito, si nota la presenza massiccia delle forze dell’ordine. Per raggiungere il nostro albergo incontriamo 5 posti di blocco: sono gli agenti della prevenzione crimine. Arrivano da tutta Italia: Roma, Lecce, Potenza, Reggio Calabria, Napoli. Sono qui per ripristinare il controllo del territorio. Molti di loro sono giovani, capiscono le difficoltà degli immigrati e li trattano come fossero italiani, come tutti in questo paese dovrebbero fare. Lo scenario sembra assomigliare sempre di più alla nostrana Castelvolturno; un paese fantasma che si porta addosso i segni di una guerra intestina che pare avere una storia lunga alle spalle.
Sveglia alle 5, colazione e via tra le strade di Rosarno. Con nostro stupore, si dipinge uno scenario decisamente diverso da quello che ci aspettavamo. I giornali hanno dedicato intere colonne alla fuga degli immigrati. Ma qui, per le strade della città, ne contiamo alcune centinaia: magrebini, albanesi, centro africani. Sembrerebbe che nulla sia cambiato. Passiamo qualche ora a girare, scattiamo foto, tentiamo delle interviste. Alle 9 le strade ancora piene di immigrati in attesa dei caporali, ma la scena è cambiata: in strada solo centro africani. Capiremo più tardi che di loro a Rosarno non se ne vuole più sentir parlare. Ne avviciniamo uno, dice di chiamarsi Adamo è originario del Mali. La sua storia fa venire i brividi, da circa due anni sfugge dalla sua famiglia « Lo stregone del paese aveva deciso che io dovere essere
sacrificio e mia sorella avere detto me. Io scappato; io prima in Mali stare bene, lavora con mio padre nel campo», parla un italiano stentato ma i suoi occhi sanno raccontare più di quel che può la sua lingua. Inizia così il suo viaggio di fuga, prima in Libia, dove viene arrestato, riesce a fuggire e di nuovo, al prezzo di mille dollari, ritenta la strada per l’Italia. Arriva, viene fermato, ma come accade spesso di recente, con i CIE che traboccano, riceve un foglio di via, ovviamente mai rispettato, unico documento che testimonia il suo nome e la sua storia, non ha più nulla solo un paio di stivali da lavoro e un impermeabile troppo leggero per il freddo d’aspromonte. La sua voce trema, come tremano le voci di chi non ha più speranza. Mentre ci racconta la sua storia attorno a noi si raggruppano alcuni suoi connazionali. Uno di loro è risentito con noi. Gli abbiamo scattato una fotoe non voleva, la cancelliamo e ci scusiamo; intanto anche lui ha voglia di parlare. Spieghiamo che siamo giornalisti, ma capiamo subito che non siamo ben visti, si è parlato troppo e male di questi immigrati. Proviamo, allora, a dire che siamo dalla loro parte o che almeno vorremmo raccontare la verità. Poche frasi e il loro atteggiamento cambia, divengono un fiume in piena; ci chiedono con insistenza perché gli Italiani che gli hanno sparato non sono stati presi. Ripetono più e più volte il termine GIUSTIZIA; si, perché dalle loro parti il senso della giustizia è alto, magari non si ha da mangiare ma si è conservato il senso della dignità, del rispetto per se e per gli altri, seppur in povertà ricordano anche qui i loro valori.
Si, gli hanno sparato e non è la prima volta: negli ultimi due anni si registrano altri quattro o cinque episodi simili. I ragazzi incalzano dicono che improvvisamente qui, per loro, che sono quasi 5.000, su una popolazione di 18.000 abitanti, lavoro non c’è ne più. Un ghanese ci racconta che sono 9 giorni che non riesce a lavorare, non riesce, pensiamo noi, a farsi sfruttare per 20 euro al giorno, si perché lui, dal 4 gennaio 2010, vale meno di un magrebino o di un albanese. Dice che aspetta, invano, due o tre ore in strada il proprio caporale, poi torna a “casa”. Parlare di casa, in realtà, proprio non si può: 15 mq per dieci persone in un basso a 200 euro al mese per ciascuno. E si dicono anche fortunati, perché c’è chi vive in vere e proprie baraccopoli sorte sulle macerie di alcune strutture, grandi opere della Regione mai completate, oppure fabbricate e abbandonate. Chiediamo ad Adamo di vedere questi posti; lui tituba un momento, la fiducia ormai qui è simile alla speranza, poi decide per il sì. Ci porta a vedere le baraccopoli della sua gente: Ex Opera Sila, La Cartiera e La Rognetta. Tre nomi che a noi non dicono nulla, ma per loro, negli ultimi quindici anni, sono state casa. Oggi di questi posti non resta quasi nulla: una è stata rasa al suolo, un’altra murata perché costruita con amianto e l’ultima è stata la scena della cacciata degli immigrati. Ci mostra gli aranceti dove il raccolto giace, maturo, ai piedi degli alberi, camion abbandonati con quintali e quintali di arance. Ci porta a vedere le baraccopoli della sua gente: Ex Opera Sila, La Cartiera e La Rognetta. Tre nomi che a noi non dicono nulla, ma per loro, negli ultimi quindici anni, sono state casa. Oggi di questi posti non resta quasi nulla: una è stata rasa al suolo, un’altra murata perché costruita con amianto e l’ultima è stata la scena della cacciata degli immigrati. Ci mostra gli aranceti dove il raccolto giace, maturo, ai piedi degli alberi, camion abbandonati con quintali e quintali di arance. Immigrati scappati, ma che dopo pochi giorni sono tornati perché qui avevano il loro lavoro e quel che restava dei loro averi. Fuggiti di notte come ladri, eppure se a qualcuno è stato rubato qualcosa è proprio a loro. Siamo sfiniti: la tristezza dei racconti e dei luoghi assieme alla levataccia ci portano a voler rientrare in albergo. Chiediamo ad Adamo dove vuole essere accompagnato, chiede di arrivare a casa. Ha paura a camminare da solo per la cittadina. Qui i centro africani ora devono muoversi in branco e solo alle prime luci dell’alba.
Il secondo giorno inizia con alcune domande che non vogliono abbandonarci. Ma Rosarno è una cittadina razzista? Perché il lavoro, all’improvviso, non c’è più? A offrirci delle risposte è Antonio Calogero della CGIL di Gioia Tauro «gli immigrati qui a Rosarno ci sono da vent’anni. Perché è da sempre che qui si raccolgono arance. Magari prima c’era più indifferenza, nel senso che loro lavoravano nei campi, raccoglievano arance; servivano, erano una risorsa necessaria.».
Qui è necessaria una breve digressione: secondo alcune direttive europee ciascun proprietario di agrumeti in base alla produzione di arance dichiarate ricevevano finanziamenti dalla CEE; basta poco per immaginare che in una zona ad alta densità criminale si sia innescato un meccanismo di falsificazione delle dichiarazioni di produzione per poter intascare il benefit europeo. Interesse principale, quindi, quello della “sovra produzione” di arance che ha richiamato e richiama l’interesse della Procure della Repubblica del posto. Le arance prodotte qui, quelle vere, partivano poi per essere impiegate nella produzione di succhi, fruttando altri bei capitali. Circa un anno fà accade che la Comunità Europea cambia due direttive. La prima riporta il benefit per i produttori in percentuale all’estensione del proprio terreno, impedendo che “carte false” facciano arricchire impropriamente. La seconda che sancisce la possibilità di non utilizzare arance nella produzione di succo.
Succede così che l’interesse per la produzione di arance cala d’improvviso. I braccianti non servono più. Le arance neanche. La ‘ndrangheta perde un guadagno ingente. E con gli immigrati che non sanno dove andare, perché in Italia una fabbrica abusiva così grande e collaudata non ve n’è. Una politica di governo che parla poco di integrazione è solo l’ultimo elemento che si aggiunge ad un quadro di illegalità e degrado in cui gli immigrati non vengono più sopportati, ma addirittura non tollerati. A fare da capi bastione durante i giorni di Rosarno alcuni pregiudicati. La ‘ndrangheta ha bisogno del consenso popolare. E lì gli immigrati sono diventati scomodi. Ora al posto delle arance sembra che si vedranno spuntare Kiwi. Il volontariato, il sociale è affidato, oggi, alla parrocchia ed a qualche persona di buon cuore che, assieme ne riescono a sfamare neanche trecento,ma di centro africani li c’è ne sono 3.500 stanchi di essere sfruttati, che dopo vent’anni non hanno smesso di chiedere giustizia.
ARTICOLO ESTRATTO DAL MENSILE COMUNICARE IL SOCIALE
di Luca Mattiucci e Walter Medolla

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