È inevitabile che l’emergenza del COVID-19, inedita e gravissima, introdurrà delle modificazioni profondissime dei nostri stili di vita. Gli enti del Terzo settore, con la loro presenza capillare sul territorio, saranno fra i primi recettori di queste trasformazioni e dovranno la responsabilità di aiutare i decisori pubblici a maturare nuove policies in grado di “governare” questo scenario di cambiamento. Ma non possiamo nasconderci che gli enti del Terzo settore saranno, essi stessi, trasformati dall’emergenza in atto. Da un lato, infatti, stanno vivendo un indebolimento inevitabile della loro presenza ed attività, dovuta alle restrizioni per prevenire il diffondersi del contagio; dall’altro, però, si dovranno immaginare nuove forme nelle quali svolgere la loro attività di interesse generale e ciò non sarà facile, dopo una “tempesta” come quella che stiamo vivendo. Per questa ragione, meritano apprezzamento e condivisione le riflessioni di chi, guardando oltre l’orizzonte dell’emergenza, vede la necessità di rinsaldare la dimensione istituzionale degli enti del Terzo settore per consentire loro di percorrere il nuovo tempo ed il nuovo spazio che si aprirà davanti a loro.
Per questa ragione, oggi, non basta leggere le norme che, nei diversi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (D.P.C.M.) e dei decreti-legge, riguardano il terzo settore ed il volontariato. Esse servono per “tamponare”, qui ed ora, situazioni di difficoltà molto concrete. Ma occorre leggerle con uno sguardo prospettico. I diversi D.P.C.M. che si sono susseguiti nel corso nei primi giorni di marzo hanno progressivamente esteso le restrizioni previste per la c.d. «zona rossa» all’interno Paese (D.P.C.M. 8 e 9 marzo 2020), determinando delle limitazioni della libertà di circolazione mai sperimentate in tutta la storia repubblicana, hanno inciso anche sull’attività dei molti volontari. Ci si è chiesti, in particolare, se l’attività di volontariato «in favore della comunità e del bene comune» fosse una delle cause che  consentisse qualche margine di movimento in più. Alla domanda si può provare a rispondere sul piano giuridico, argomentando sul tipo di attività svolta, sui beneficiari dell’azione volontaria (ad es., può essere considerata diversamente, in questa circostanza, l’attività di trasporto degli ammalati). Eppure, in realtà, la domanda è più profonda ed interroga sul senso stesso del volontariato dentro le nostre comunità: in altri termini, esso è un tratto essenziale del nostro modo di essere comunità, oppure è un elemento aggiuntivo, cui si può rinunciare a causa dell’emergenza? Ma il volontariato stesso è chiamato ad interrogarsi, senza limitarsi ad additare le restrizioni: come si può svolgere una azione volontaria, nel tempo dell’emergenza?
Con quali strumenti nuovi? Il decreto Cura-Italia (n. 18 del 2020) rinvia il termine per l’adeguamento degli statuti di ODV, APS ed Onlus dal 30 giugno 2020 al 31 ottobre 2020 (art. 35). Inoltre, consente alle medesime ODV, APS ed Onlus di rinviare l’approvazione dei loro bilanci fino al 31 ottobre 2020, nonostante qualsiasi diversa previsione di legge, regolamento o statuto. Per tutte le associazioni – riconosciute e non riconosciute – nonché le fondazioni, si consente di tenere le riunioni degli organi sociali in modalità telematica, ancorché gli statuti non lo prevedano (art. 73, c.4). Altre disposizioni, poi, prevedono la proroga di alcuni termini per adempimenti fiscali. Già queste disposizioni, di per sé, possono innescare dei piccoli cambiamenti di lungo periodo (ad es., la partecipazione telematica alle assemblee, che potrebbe rinvigorire certe compagini associative). Ma se dovessi indicare, fra le diverse disposizioni che riguardano anche il Terzo settore, una di quelle che più mi ha colpito, indicherei però l’art. 48 del decreto Cura-Italia. Anche se si dovrà verificare il modo in cui sarà applicato, quella disposizione – che riguarda le prestazioni domiciliari individuali per le persone con disabilità o per gli anziani, nel periodo di chiusura dei centri diurni ove sono ospitati – richiede che le pubbliche amministrazioni forniscano prestazioni “compensative” in forme individuali domiciliari o a distanza o resi nel rispetto delle direttive sanitarie negli stessi luoghi ove si svolgono normalmente i servizi senza ricreare aggregazione: «tali servizi si possono svolgere secondo priorità individuate dall’amministrazione competente, tramite coprogettazioni con gli enti gestori (…)». Dopo mesi di discussioni accese, tentativi di fermare le novità del Codice del Terzo settore in tema di co-progettazione, iniziative dell’ANAC, è bastato che l’emergenza COVIS19 mettesse – per così dire – con le spalle al muro, affinché si riconoscesse la “forza” della coprogettazione (in luogo della competizione nelle gare d’appalto) nel rimodulare i rapporti fra amministrazioni pubbliche e soggetti gestori.
Un precedente importante, mi pare. Qualche giorno prima, il decreto-legge n. 14 del 2020 aveva innovato l’art. 17, c. 5 del Codice del Terzo settore. Si tratta di una delle “pietre angolari” della riforma del Terzo settore, una norma che definisce il volto stesso del volontariato italiano. Ebbene – si legge – «per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19, per il periodo della durata emergenziale, come stabilito dalla delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, non si applica il regime di incompatibilità» fra la qualità di volontario e quella di lavoratore. Cosicché un volontario potrà essere assunto come lavoratore nell’ente presso il quale svolge la propria attività e, viceversa, un lavoratore potrà svolgere attività di volontariato nell’ente nel quale è assunto. È l’emergenza, si dirà. È vero. Però è altrettanto vero che l’emergenza “definisce” un nuovo volto dell’attività di volontariato, che si “ibrida” con l’attività lavorativa. Si apre uno scenario inatteso, almeno dopo la riforma del Terzo settore, col quale si è chiamati a confrontarsi.
di Luca Gori
Ricercatore in diritto costituzionale Scuola Superiore Sant’Anna – Pisa,
Centro di ricerca «Maria Eletta Martini».