Costretti incessantemente a lavorare per trasferire in ambulanza ai vari ospedali, quando c’è posto, pazienti positivi o sospetti positivi al Covid-19 nonostante gli strumenti di protezione a disposizione scarseggino. E non solo: con i casi acclarati di contagio tra i colleghi, allo stress di turni di ben 12 ore – pagati spesso molto meno di quanto sarebbe giusto – si aggiunge la paura di aver contratto il virus. Gli operatori del 118 dell’Asl Napoli 1 mostrano in pubblico la propria forza che un impegno gravoso come il loro presuppone soprattutto in questo periodo emergenziale, ma in realtà le loro fragilità sono tante. E, ascoltandole, sono tutte condivisibili.

Un lavoro senza tutele-  A parlarcene, in forma anonima, è un’operatrice ogni giorno in prima linea per assistere le persone con sintomi sospetti da Coronavirus. Il racconto parte dalla stretta attualità e cioè dal contagio di uno lavoratore del 118. «Di recente – afferma chi decide di raccontarci questo quotidiano disagio – un mio collega che come me lavora sulle ambulanze ha saputo di essere affetto da Coronavirus. Solo allora, grazie alla Centrale Operativa a cui facciamo riferimento per gli interventi da compiere, anche io e altre decine di persone abbiamo avuto il via libera per sottoporci al tampone. Ma la risposta arriverà soltanto fra qualche giorno e nel frattempo io, come altri, sono costretta comunque a recarmi a lavoro con tutte le preoccupazioni del caso». Di isolarsi volontariamente, di mettersi in quarantena non se ne parla. E questo non per mera incoscienza ma per due ordini di ragione: una nobile, l’altra di necessità (e a suo modo nobile anch’essa). La prima ragione, è il senso del dovere che bussa sulla coscienza ogni giorno suggerendo di non abbandonare il campo in piena epidemia da Coronavirus. La seconda è di garantirsi un sostentamento economico che in caso di stop dal servizio evaporerebbe. «Ho un contratto della durata di 6 mesi a partita Iva – confida l’operatrice sanitaria – Per un turno di bene 12 ore il compenso è di 90 euro e se non mi recassi a lavoro non sarei pagata perché è quello che prevede proprio questo tipo contratto. Rinunciare in questo momento non potrei, entrate economiche alternative non ne ho».

Scarse protezioni- All’ansia si accompagna la frustrazione di lavorare in condizioni proibitive. «Ancora oggi sono scarsissime le possibilità di avere il Dpi e altro materiale sanitario. Anche io ho dovuto indossare lo stesso tipo di mascherina per più tempo rispetto al previsto. Il sistema appare sempre di più al collasso. Senza un supporto concreto a noi, ai medici, agli infermieri, e di conseguenza ai pazienti, da questa storia non ne usciremo più» afferma la nostra interlocutrice che poi conferma un altro elemento drammatico. «Non di rado è capitato che molti ospedali siano stati costretti a rimandare a casa le persone con sintomi o affetti da Coronavirus perché negli ospedali non c’erano posti disponibili. (compresi quelli di terapia intensiva ndr.). E questo l’ho visto accadere al Fatebenefratelli, al Cardarelli, al Vecchio Pellegrini, all’Ospedale del Mare. Una cosa terribile» e con la si dovrà fare i conti anche quando il Coronavirus toglierà il disturbo. 

di Antonio Sabbatino