SALERNO – “Qui siede chi non guarda se non con gli occhi dell’amore, chi non possiede, ma abbraccia, chi non giudica, ma accoglie e chi non fa spazio alla violenza”. Una frase simbolica, questa, destinata ad essere uno spartiacque e scelta come manifesto tra le numerose pervenute dalla comunità universitaria degli Studi di Salerno grazie al contest promosso e lanciato attraverso i canali social di Ateneo. Lo scorso 18 Novembre, infatti, l’Università di Salerno ha aderito al progetto nazionale “Panchine Rosse”, celebrando la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne” con l’installazione della “#PanchinaRossaUnisa” nel campus di Fisciano.  La panchina rossa è stata installata di fronte al Chiostro della Pace a simboleggiare uno spazio idealmente occupato: quello di tutte le donne che hanno subìto violenza, e di cui è necessario conservare la memoria per far sì che altre donne, nelle stesse condizioni, possano sfuggire alla persecuzione di un compagno che troppo spesso si trasforma in uomo-orco.
Durante la manifestazione, la frase sopracitata (inviata da Maria Cristina Folino, ex studentessa del Campus) è risultata vincitrice del contest, e riportata proprio sulla panchina rossa a mo’ di monito. Tutte le altre, invece, sono state raccolte in una sezione dedicata del sito web di Ateneo, presentata al pubblico durante l’evento.
La professoressa Minerva Josefina Tavarez Mirabal, ospite della giornata, ha raccontato la storia di tre donne coraggiose, quella di sua madre e delle sue zie, dando vita a un momento di riflessione con studenti e studentesse: «mia madre aveva 34 anni, mia zia 35 e la più giovane, l’ultima delle tre sorelle Mirabal, di anni ne aveva 25 quando furono brutalmente assassinate, a Polo, scaraventate da un dirupo insieme al conducente della loro auto, nell’intento di simulare un incidente. Erano di ritorno verso casa, dopo aver fatto visita ai mariti imprigionati dalla dittatura in una località remota. Nessuno credette alla storia dell’incidente. Non a caso, molte volte, mia madre aveva ricevuto minacce perché insieme a mio padre, Manolo Tavarez Justo, aveva organizzato un movimento di resistenza contro la dittatura che si era diffuso per tutto il paese, e che vedeva fra le sue fila adepti vicini al movimento di Trujillo. La nostra era la prima e più importante organizzazione di resistenza del paese dopo trentadue anni di regime: più di 400 giovani furono torturati, altri sparirono, altri ancora, vennero imprigionati».
Soltanto vent’anni dopo la morte delle sorelle Mirabal, nel 1981, durante il “Primo incontro internazionale femminista” che ebbe luogo a Bogotà, si cominciò a riflettere sulla data del 25 Novembre e a parlare di un problema che era sempre esistito, ma al quale non si era mai dato il giusto peso e che, al contrario, aveva rappresentato un tabù. E si sa, ciò di cui non si parla, non esiste. Finalmente, su istanza di 101 paesi si chiese all’ONU di proclamare il 25 Novembre quale data simbolo del ricordo, della volontà di mettere in luce ciò che in molti volevano non si sapesse.
«Anche in altri incontri – continua Minerva Josefina Mirabal – ho ribadito che per le sorelle Mirabal una grande colpa fu quella di essere belle. L’odio di Trujillo verso tutta la famiglia nacque quando, conosciuta mia madre Minerva, a una festa, le fece delle avances che gli vennero prontamente rifiutate. La collera di Trujillo fu tale che quella stessa notte i familiari di Minerva vennero arrestati e al resto degli invitati fu imposto di restare alla festa fino all’alba. In seguito, a Minerva venne proibito il diritto allo studio, ed anche quando, in un secondo momento, riuscì a laurearsi, non le fu permesso di esercitare la propria professione, fino al tragico epilogo di un omicidio efferato, travestito da incidente». Di qui la connotazione di genere, il rifiuto amoroso che si intrufola nei meccanismi politici divenendo veleno, quello che in letteratura – così come spiega la direttrice del DIPSUM Rosa Maria Grillo – è il “dittatore onnivoro”: colui che non dorme mai, che indirizza le sue attenzioni verso giovani donne che non possono rifiutarlo. A Minerva fu fatale il suo stesso rifiuto, la libertà di scegliere per se stessa, di essere padrona del proprio corpo. Eppure, conclude la figlia Josefina: «Ciò che più importa delle sorelle Mirabal, più della loro morte, è ciò che fecero in vita. L’impegno per la verità, la libertà, la democrazia e i diritti umani. Nulla potrà mai compensare una figlia per la perdita di una madre. Tuttavia, quando penso che il suo esempio è servito per evitare la morte di una sola persona al mondo, il suo sacrificio sarà valso la pena».
 

di Francesca Coppola

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