IgiabaScego_AduaROMA – «Ora ti sei liberata, Adua. Non hai più quel maledetto clitoride che rende sporca ogni donna. Zac! Te l’hanno tagliato, finalmente!». L’infibulazione è una pratica barbara e tanto lontana dalla civiltà occidentale che quasi non ci si crede a leggerne. Mutilare la donna nella parte più intima di se stessa è la forma più intollerabile di appropriazione della dignità: la stessa che viene negata ad Adua, protagonista dell’omonimo romanzo (Giunti) scritto da Igiaba Scego.

LA TRAMA – A diciassette anni Adua scappa dalla Somalia e approda in Italia inseguendo il miraggio del cinema; sfuggendo a un padre padrone, Zoppe, che non manca mai di farle la paternale, la partaccia tipica di un uomo incapace di allevare i figli con affetto. Zoppe in fondo non è malvagio, ma un essere che a sua volta non ha superato i propri fantasmi, i traumi di un passato che giorno dopo giorno diventa un peso troppo grosso da sopportare. Interprete durante il regime fascista, Zoppe ha barattato involontariamente la sua libertà con quella del popolo a cui appartiene: una condizione di sudditanza coloniale che lo marchierà a vita. Il suo pessimo carattere spingerà Adua ad allontanarsi, a scivolare nel baratro dello sfruttamento fisico e psicologico: scelta dal regista Arturo e sua moglie, la spietata Sissi, Adua crederà di ottenere la parte di attrice protagonista nel film di successo che ha sognato sin da bambina, un film degno di Marilyn Monroe. Quello che reciterà, invece, sarà un soft porno dal titolo Femina Somala, che ricorderà col tormento dell’umiliazione e della vergogna. Priva di vestiti sulla spiaggia di Capocotta o coperta di abiti succinti, Adua verrà costretta a interpretare il ruolo di Elo, una «che si spogliava nuda e si donava agli uomini come una cagna». Una per cui verrà tagliata con le forbici proprio lì, dove papà Zoppe l’ha fatta cucire da una mammana, perché così: «Il tuo sesso non va più penzoloni, Adua. È bello essere pura».

TINTE FORTI – Il “prendere” e il “togliere” in questo romanzo è descritto con tinte forti, che sconvolgono. Italiani, somali o qualsiasi altra nazionalità non fa differenza. Non fa differenza quando ad agire sono produttori cinematografici spietati o genitori offuscati dalla sete del pudore. Individui che credono di potere tutto sulla vita degli altri e oltre, senza pietà. Adua è in balia di un regime familiare che cambia soltanto per dare spazio a un futuro di false promesse, e a un amore – molti anni dopo – con un ragazzo sbarcato a Lampedusa, nato a sua volta per convenienza. Il giovane migrante viene sempre chiamato «Titanic», come a rimarcare quel viaggio che sui barconi è sempre un rischio e mai una certezza, e non è sinceramente innamorato di lei. L’ha sposata, nonostante Adua sia molto più grande, una «Vecchia Lira», per avere un pasto caldo e un tetto sulla testa, quel poco di protezione che maldestramente rifugge con svaghi virtuali, con dichiarazioni d’amore ad altre donne su Facebook. Ciò che «Titanic» desidera, in realtà, è lasciare l’Italia, farsi una vita all’estero, in Finlandia, Norvegia, Gran Bretagna, dove le opportunità di ricominciare daccapo non mancano affatto; dove altre migranti, più giovani, sono pronte a concedergli la passione che orami nella protagonista si è spenta.

FINALE – Un presente fatto di memorie infelici, dunque, che Adua confida alla statua dell’elefantino del Bernini che regge l’obelisco in piazza Santa Maria sopra Minerva. È così che si dipana un’intera storia, un romanzo a due voci che come parallele procedono senza speranza d’incontro: Adua e Zoppe, Zoppe e Adua. Un padre e una figlia destinati a non capirsi, e a subire la stessa dolorosa, cruda sofferenza in nome della libertà. Seppure in modi diversi, ambedue si portano dentro un destino difficile, segnato da tappe che Igiaba Scego delinea con fluidità e ricchezza di sentimenti. Pagine con un grosso fondo di malinconia e amaro rimpianto per quello che si è compreso dopo averlo perso, i cui personaggi sono caratterizzati in modo sottile, fisicamente dettagliato al punto che se ne riesce a leggere la sfera interiore, la povertà d’intenti, la necessità di redenzione. «Alla fine io e te non siamo diversi – ammette papà Zoppe in un ultimo, immaginario tentativo di riconciliazione con Adua – qualcuno ci ha umiliato, schiacciato. Io sono rimasto sotto. Sono stato sconfitto. Forse tu sarai più fortunata. Forse». Un finale aperto che si intravede di striscio. Per pochi. Soltanto per chi vuole cambiare davvero.

 

di Francesca Coppola

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