nasiibNAPOLI – Nasiib ha vent’anni. E’ piccolo, ma la sua vita gli impone di essere un adulto infelice. Gracile. Chiuso a guscio dentro un largo giubbotto che lo avvolge quasi a farlo scomparire, nasconde timidezza e vergogna di chiedere. Confida che il suo nome ha un significato particolare “fortunato” e mentre lo dice, sorride perplesso. Però poi, ad alta voce si ricorda da solo “sono vivo, oh” e si consola. Lui è un dodicenne bambino quando il padre gli ordina di lasciare la Somalia. Una fuga necessaria e inimmaginata. Scappare per sopravvivere alle minacce del gruppo terroristico Al Shabaab, che aveva deciso di arruolare Nasiib nell’ esercito della morte. Un prescelto. «Ma io con le bombe e la guerra non ci volevo avere a che fare». Inizia così, un lungo viaggio di sola andata. Un susseguirsi di confini migranti ed ostili, di terre sconosciute e tratte umane. Prima il Kenia, poi il Sudan, dove viene abbandonato di sera nel deserto. «Solo, senza cibo né acqua, scalzo e convinto di morire. Ho dormito lì. La mattina successiva mi sono incamminato, non sapevo dove andare. Attorno a me, i corpi di tanti fratelli stremati dalla fatica e dalla sete. Stavo quasi per cedere, quando una macchina mi si avvicina e chiede : “Sei eritreo o somalo?”. La mia Somalia, m’ha salvato. Salgo. Arrivo a Cufra».

«VOLEVANO BUTTARCI IN MARE» – In Libia, lo aspetta però un anno di galera: clandestino a Tripoli. «In carcere sono stato picchiato, trattato come una bestia. Non ci davano da mangiare e le condizioni in cui vivevamo erano disumane. Più di 10 in una sola cella, tra sporcizia e buio». Nasiib sconta la sua prigionia, “colpevole” di non avere un posto nel mondo. Decide di raggiungere l’Italia. L’eldorado tanto sognato. L’accordo con un nigeriano, i soldi, il mare, Lampedusa, il centro d’accoglienza. Il barcone. Quel barcone. 207 anime disperate che cercano vita. Parla della traversata con gli occhi spalancati ed attenti. Se ci guardi dentro, tocchi la stessa paura di quei giorni e di quelle interminabili notti insonni. Racconta del pianto straziante dei bambini, di madri inermi, di uomini pronti a tutto per sopravvivere, del suo “posto” che si sporgeva troppo in acqua, del freddo, della fame, del vento, dei trafficanti coi coltelli, delle violenze. «Volevano buttarci in mare, lontano dalla costa italiana per non rischiare, molti di noi non sapevano nuotare. Io mi sono rifiutato. Ho preso tante botte».

SPAZZACAMINO – Un tragitto di pianto e preghiere, ma anche di speranza sbiadita: Nasiib, rifugiato politico, vorrebbe avere sul serio vent’anni e credere sul serio nei sogni quando dice che da grande gli piacerebbe sposarsi, fare il calciatore oppure “quello che porta gli aerei”, ma sa che non può permettersi le illusioni. Vive, oggi, tra Napoli – dove ha lavorato nel progetto “SpazzaCamino”- e Palma Campania, che l’ha adottato. Cerca, attualmente, un tetto e un lavoro sicuro. E a chi gli dice, con tono razzista che dovrebbe stare nel suo Paese, risponde: «Quanto vorrei». Lì, nella sua terra amata ha lasciato radici, spensieratezza, identità e una famiglia che porta tutta nel taschino del suo largo giubbotto, dentro una fotografia sgualcita.

di Carmela Cassese – @ElaFreedom

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