Una giovane giornalista napoletana va a studiare a Siena, dove inizia ad insegnare l’italiano ai rifugiati africani. Con loro condivide la condizione di migrante, le differenze culturali e linguistiche. Le difficoltà. E la voglia di partire ancora.
 

aurinoSIENA – Se solo qualche mese fa mi avessero chiesto cosa so dell’Africa la mia risposta sarebbe stata: «Nulla». Forse mi sarebbe tornato alla mente quando a scuola ci spiegavano la colonizzazione del continente africano: le potenze europee pronte a dividerselo come una torta, in tante fette. 
 

 
Proprio come ai compleanni: c’è chi si becca la fetta più grossa, chi quella venuta male.

O forse avrei ripensato all’unica volta in cui avevo parlato con un ragazzo africano nella mia Napoli. Uno robusto e sorridente, di quelli che vendono mille cianfrusaglie. Mi aveva messo nelle mani una piccola tartaruga dicendomi in napoletano: «Tiè, questa ti porterà fortuna in amore». Ma di lì a poco la mia vita sentimentale avrebbe conosciuto un crollo clamoroso. Del resto, si sa, noi partenopei siamo scaramantici e permalosi. Per questo fino a qualche tempo fa non avrei potuto raccontare nulla di più di questi due episodi sull’Africa. Nulla di buono. Finché non è stata lei a bussare alla mia porta, con una sfida: spiegare l’Italia e la sua lingua a dieci ragazzi rifugiati dall’Africa. Da alcuni mesi provo a farlo insieme a Chiara, toscana che più toscana non si può, ma cresciuta – come dice lei – a pane e immigrelli, che in Africa ci ha pure vissuto. A differenza di quello che si può pensare insegnare l’italiano non è facile. Neppure per un italiano. Come tra me e Chiara: il primo ostacolo è capirci tra noi.

Apprendere una lingua è come visitare una città sconosciuta: arriva un momento in cui non ci sono cartine, e bisogna fidarsi del proprio istinto.

I ragazzi vengono da Gambia, Mali, Senegal, dalla Guinea. Parlano inglese, francese, fula, soninke, bambara o wolof. C’è Waie, che parla solo creolo e mandinka. Il primo giorno è arrivato vestito di tutto punto: giacca, cravatta, camicia bianca. Scarpe eleganti, anche se non proprio nuovissime. Si è subito conquistato il soprannome di Pippo Baudo, con il suo sorriso smagliante da prima serata. Dice di avere 23 anni, Waie, ma non è che gli ho creduto molto. «Gli africani fanno così, si abbassano l’età», mi ha spiegato Chiara. In realtà di anni non ne hanno molti di più di me. Che sono ragazzi lo vedi dal fare ribelle con cui stanno seduti sulle sedie, dalla musica che parte subito con la pausa, da come si prendono in giro a vicenda. Eppure, anche se possono sembrare spensierati, non è facile conquistare la loro fiducia. La prima volta che li abbiamo incontrati abbiamo chiesto loro di scrivere il proprio nome su un pezzetto di carta colorata, attaccarlo al petto e presentarsi. Camara ha attaccato il suo cartellino al muro, è si arrabbiato quando ha visto che i compagni mettevano un cartellino sopra l’altro.

«Siamo tutti uguali», sembrava volesse dire.

Da quando conosco Waie, Camara e gli altri, ho cominciato a ripensare al significato della parola migrazione. Ho ridimensionato la mia e ho iniziato a guardare le immagini delle migliaia di persone che arrivano sulle nostre coste in maniera diversa. Ho provato sensazioni nuove alla consapevolezza che persone come i nostri alunni muoiono nelle nostre acque, ogni giorno. Persone con gli occhi di Souleyman, che sta sempre seduto in un angolo e nasconde il viso dietro il foglio. Questi ragazzi hanno storie che non conosco, che forse non conoscerò mai. Eppure, quando gli chiedo di parlare di casa loro mi sembra di conoscerli. Waie, Camara, Souleyman hanno fatto richiesta di protezione internazionale e ora aspettano. Ora vivono in un limbo. Nel frattempo io e Chiara proviamo ad insegnare loro l’italiano, ma non sono così sicura non vorranno andare via da qui. Perché sono come me: non conoscono arrivi, solo partenze.

di Silvia Aurino

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