FOGGIA – Peggio dei cani. Più pericolosi dei criminali. Colpevoli di avere un orientamento sessuale incompatibile con la morale del Paese. E soprattutto, con il codice penale. Chi viola la legge viene punito con la reclusione. E dietro le sbarre il suo nome viene trasformato in un numero, in un codice. Il 347bis, quello che in Camerun vieta le attività sessuali tra persone dello stesso sesso. Lo sa bene Samuel, che per quasi un anno è stato rinchiuso in un carcere di Yaoundé per aver infranto la legge. Condannato al massimo della pena, a cinque anni di prigione perché amava un uomo. Una persona del suo stesso sesso. Ed in Camerun «l’omosessualità è considerata un crimine». Per questo, Samuel dopo aver subito in carcere anche torture e trattamenti disumani, ha cercato di fuggire. Di lasciare la sua terra. La sua famiglia che lo ha rinnegato. E dopo un rocambolesco viaggio che lo ha visto passare prima per la Nigeria e poi per la Turchia, è arrivato in Italia, a Roma, dove ha presentato alla polizia di frontiera la domanda per ottenere lo status di rifugiato politico.
LA STORIA – Insegnante di Filosofia e proprietario di due impianti di cacao, Samuel a 36 anni conosce l’inferno. Ed inizia a riscrivere la sua vita. «Il 18 agosto del 2011 sono stato arrestato dalla polizia insieme al mio compagno olandese con l’accusa di essere omosessuale. E nel mio Paese – racconta – gli omosessuali sono considerati peggio dei cani, dei veri e propri criminali». L’articolo 347bis del codice penale, infatti, parla chiaro: sono assolutamente vietate le attività sessuali tra persone dello stesso sesso. Chi trasgredisce viene punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni ed al pagamento di una multa pecuniaria che oscilla tra i 29mila ed i 200mila franchi. A “tradire” la relazione fra Samuel ed il suo compagno, è «un gruppo di ragazzini che volevano rubare nel giardino della casa in cui vivevamo insieme. Ci hanno visto dalla finestra e ci hanno denunciati alle autorità. Dopo pochi giorni, siamo stati arrestati e condotti in carcere». Samuel cerca aiuto e conforto in famiglia. Ed attraverso il padre fa giungere la sua richiesta d’aiuto allo zio, all’arcivescovo di Yaoundé, Simon-Victor Tonyé Bakot. «Ma non ha fatto nulla per salvarmi, per aiutarmi. Anzi, ha peggiorato la mia situazione, anche perché in Camerun la chiesa cattolica è fortemente contraria all’omosessualità». E così, alla fine del processo, il giudice applica a pieno tutta la follia dell’articolo 347bis del codice penale e condanna entrambi a cinque anni di galera.
LA TORTURA IN CARCERE – In prigione non c’è pietà per chi finisce dentro perché marchiato con il reato di omosessualità. Guardie e detenuti, come da tradizione camerunense, si rivolgono a Samuel chiamandolo «347bis» e non più per nome. Ma questa, forse, è la parte più lieve della storia. Perché «in carcere sono stato torturato, picchiato, massacrato di botte. Ho subito trattamenti disumani e degradanti da parte degli agenti di polizia e degli altri detenuti. Ed un giorno sono finito in ospedale con il viso tumefatto». Ed è proprio quel giorno che il giovane africano intravede una possibilità di salvezza. «Ho corrotto un poliziotto. Gli ho promesso dei soldi se mi faceva evadere e scappare dal mio Paese». E così è stato. Samuel paga la guardia e riesce a fuggire. Ma dietro di sé si lascia un dolore sempre presente. «Il mio compagno è ancora in carcere e deve finire di scontare una pena di cinque anni. Solo perché ci amavamo».
L’ARRIVO IN ITALIA – Sbarcato a Roma, Samuel chiede lo status di rifugiato politico. Dalla Capitale viene inviato a Foggia, nel Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo di Borgo Mezzanone. La commissione territoriale esamina il suo caso, studia le carte, ascolta e verifica con attenzione la sua storia. Ed alla fine gli concede l’asilo politico con la seguente motivazione: «In caso di rientro nel Paese di origine si evidenzia un pericolo di persecuzione in ragione del suo orientamento sessuale». Nel C.A.R.A. Samuel entra in contatto con dei medici che decidono di seguire il suo caso, di sostenerlo. E si affida a loro. Parla, racconta, confessa le sue paure. Viene inserito in un progetto Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. «Attualmente Samuel sta lottando per guarire il dolore delle cicatrici fisiche e psichiche e sta cercando di progettare la sua nuova vita in Italia – spiega Antonio D’Onghia, psichiatra del Centro di Salute Mentale di Foggia – . Dopo aver conosciuto la prigione, il viaggio, la burocrazia, la commissione territoriale, questo è il momento del racconto». Perché Samuel adesso ha bisogno di parlare, di condividere la sua storia: «Voglio fare sapere a tutti cosa accade nel mio paese, cosa accade in Camerun, perché spero che un giorno vengano rispettati anche i diritti delle persone omosessuali».

di Emiliano Moccia

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