di Stefano Piedimonte*
Ho fatto la scelta coraggiosa di entrare in un ospedale pubblico per sottopormi a un intervento chirurgico. Risultato: due notti in stanza con un vecchio lamentoso e catarroso che continuava a ripetere “oh, mammina mammina. Oh, mammina mammina”. E che palle, oh. Come se non bastasse, il vecchio non la smetteva di chiedere una sedia a rotelle perché diceva che non poteva camminare. Tutte balle. Quando gliel’hanno portata è sceso dal letto, ha messo un piede davanti all’altro coprendo tutti i metri che servivano, e ci si è seduto sopra. E io, che sul serio non potevo camminare, ero lì steso nel letto senza emettere un fiato.

Però lui non voleva che la portassero via, la sua sedia. Se gliela toglievi ripartiva con la sua lagna. Un medico l’ha visto e ha detto “signor Giovanni, di nuovo qui?”. Un infermiere l’ha visto e ha detto “signor Giovanni, di nuovo qui?”. Il signor Giovanni fa il giro degli ospedali, parte coi suoi “oh, mammina mammina” e pretende la sua sedia a rotelle.
Ora sono a casa, lentamente sto riprendendo a muovermi. Qualche giorno e sarà tutto ok. Appena sono entrato, con la mia compagna che mi sorreggeva, il tepore dei riscaldamenti accesi, il lettone morbido e il piatto in tavola, ho pensato al signor Giovanni. Ho capito in pochi secondi ciò che in due giorni non avevo capito. La sua sedia a rotelle. Ho capito perché non può farne a meno. Ho capito che nessuno, per l’amor di dio, dovrebbe mai farne a meno. Io sono qui, lui è ancora lì, o in un altro ospedale. Non ho bisogno di chiedere per saperlo. E sarà lì anche domani, per chiedere la sua sedia. Perché è l’unica cosa che, ragionevolmente, spera di riuscire a ottenere. L’unico sostegno. Com’è che è finita così? E quand’è cominciata?
* editorialista di Comunicare il Sociale

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