di Antonio Menna •
 
Mi capita spesso, durante le presentazioni del mio libro, in queste settimane, di incontrare scolaresche. Gli insegnanti, preoccupati del tono un po’ pessimistico del mio romanzo, mi chiedono di dare parole di speranza. Io non ne ho. Indosso una maschera politicamente corretta, però, e faccio finta. Provo a balbettare qualcosa. Ma non sono convincente.
Mi dicono che un libro debba contenere una speranza, sempre. Altrimenti a che serve? Io penso che un libro possa anche, semplicemente, disperarti. Del resto, svuotarsi di inutili speranze è una bonifica. Una pulizia necessaria. Quante inutili speranze coltiviamo in questo chiacchiericcio ostinato sulla salvezza del sud? Fateci caso: i cantori più attivi della speranza sono proprio quelli che lavorano alla vostra disperazione. Sono loro, che non vogliono sentire i problemi; che preferiscono il canto del positivo, il canto del fare, con il malinteso senso del non arrendersi mentre in realtà vogliono solo tenerti in ostaggio della loro falsa speranza.
Io rivendico, invece, il diritto ad arrendermi. E anche a disperare, dopo aver tanto sperato.
Penso questo quando vedo straordinari esempi della mia generazione perdere le forze e rassegnarsi. Hanno ragione. Come fai a non rassegnarti? Mi verrebbe da dire che chi non si rassegna è ottuso. Ma evito.
Faccio spesso un esempio: io ho frequentato le elementari in un garage, perché nel mio quartiere non c’era la scuola e il Comune fittò due sottoscala; poi ho fatto le medie in un container, perché venne il terremoto, la scuola divenne inagibile e ci sistemarono lì; poi ho fatto le superiori in una cucina, perché non c’era l’edificio scolastico e fu fittato un palazzo con gli appartamenti. A qualcuno toccò il salotto con il parato a fiori, a me la cucina, per la precisione il posto sotto il buco della cappa, con un’ansia pazzesca. Poi sono andato all’Università, e ho fatto lezione nei cinema. Perché non c’erano le aule. Mi sono laureato senza aver mai messo piede in una scuola. Tornavo a casa e guardavo “la famiglia Bradford”, quei bei college americani con gli studenti che indossavano le felpe col cappuccio, e il campo di basket, le lavagne enormi, e le palestre. Mi chiedevo se quelle scuole esistessero davvero. Ho visto centinaia di compagni lasciare gli studi, abbandonare per strada. Una strage silenziosa. Ma come posso, oggi, dargli torto? Quella scuola non faceva nulla per trattenerci. Rimanere in quei banchi era da eroi. O da ottusi. Così questo territorio, questo Paese, non fa nulla per trattenerci. Al massimo, ci insulta. Ci chiamano bamboccioni, sfigati, mammoni. Ci dicono che se tiriamo fuori le palle, ce la facciamo. Pensano di spronarci. In realtà ci insultano. Stanno dicendo, indirettamente, che se non ce la fai, è colpa tua.
Allora io me la prendo la colpa. Me la prendo tutta. Ma vi rendo la disperazione; mi ribello al vostro inutile buonismo, racconto i problemi, e non do speranze. E non ne prendo.
Disperiamoci, e quindi rivoltiamoci.

• Giornalista e scrittore, autore del libro “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”, edizioni Sperling & Kupfer

http://antoniomenna.wordpress.com/

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